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Una guerra da «vincere» sulla pelle dei palestinesi

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MEDIO ORIENTE. Siamo in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella «guerra mondiale a pezzi» di cui parlava papa Francesco

Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan, alla vigilia del massacro di Hamas del 7 ottobre aveva dichiarato che «negli ultimi vent’anni il Medio Oriente non era mai stato così tranquillo come oggi». Pochi giorni dopo gli Usa sono stati coinvolti nel conflitto fornendo bombe da 900 chili a Israele, quattro volte quelle usate a Mosul contro l’Isis, e stanziando 14 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele.

Visto che il congresso americano blocca i fondi all’Ucraina, è abbastanza chiaro per Washington qual è la guerra da vincere assolutamente. Mentre all’Onu per ora viene votata una singolare risoluzione minore sugli aiuti umanitari a Gaza, con Stati Uniti e Russia astenuti, che non chiede una tregua immediata; proprio mentre Israele assicura che «la guerra continua per il rilascio degli ostaggi», mentre Guterres ammonisce che è proprio «l’offensiva di Israele il vero ostacolo per gli aiuti a Gaza».

Ora il coinvolgimento Usa ed europeo è diventato diretto nel momento in cui gli Houthi, alleati di Teheran, hanno deciso di bersagliare con i droni le navi mercantili nel Mar Rosso dirette in Israele. Washington guida adesso una coalizione navale di «volonterosi» costituita da un ventina di Paesi tra cui l’Italia.

SIAMO in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella «guerra mondiale a pezzi» di cui parlava papa Francesco e sulla quale ci facciamo quasi sempre un’opinione quando tornare alla diplomazia diventa impossibile.

Il conflitto in Medio Oriente si è già allargato con i missili tra gli sciiti Hezbollah e Israele su un confine dove lo Stato ebraico ha mobilitato 200mila soldati ed evacuato 80mila civili. Manovre per tenere sotto controllo la frontiera? In realtà sia Hezbollah che Teheran non sembrano intenzionati ad avviare un conflitto in grande stile: «La Siria ci è costata tantissimo», mi dice un diplomatico iraniano, mentre Israele con il suo ministro della difesa Gallant minaccia di tanto in tanto «di far tornare il Libano al Medio Evo». L’equilibrio qui appare sempre appeso a in filo.

Tutti i giorni, o quasi, Israele, partendo dal Golan che occupa dal 1967 (nonostante una recente risoluzione Onu gli imponga il ritiro), bombarda in Siria le postazioni di pasdaran iraniani ed Hezbollah libanesi, così come le milizie sciite bersagliano le basi americane nella regione petrolifere di Deir Ez-Zor che Washington non ha nessuna intenzione di mollare.

I raid israeliani in Siria sono il segnale che quell’accordo tra Putin e Netanyahu regge ancora: mai Mosca ha protestato contro il governo di Tel Aviv che prende di mira i maggiori alleati dei russi in Medio Oriente.

La Siria, dopo l’inizio della rivolta contro Bashar Assad nel 2011, è diventata una sorta di condominio militare che racchiude guerre e rivalità degli ultimi decenni. A cominciare dall’Isis, che partendo dall’Iraq nella sua guerra rivolta soprattutto contro gli sciiti e i loro alleati, prima che contro l’Occidente, è ancora presente, Idlib e provincia sono il santuario di vari gruppi jihadisti, la Russia, storica protettrice di Damasco, ha le sue basi militari siriane, mentre la Turchia occupa fasce consistenti di territorio nel nord della Siria dove ha massacrato i curdi con l’assenso americano, dopo che questi erano stati stoici alleati dell’Occidente contro il Califfato.

GLI AMERICANI per altro hanno anche seri problemi con le milizie sciite in Iraq, circa 250mila uomini più forti dello stesso esercito iracheno. Dal 2003 con la guerra lanciata dagli Usa contro Saddam Hussein la Mesopotamia ha visto centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. In vent’anni da allora queste ferite non si sono rimarginate.

Se poi si volge lo sguardo al Medio Oriente «allargato» i motivi di preoccupazione sono molteplici. A partire dalla guerra civile in Sudan tra i due generali Burhan ed Hemetti clamorosamente uscita dai nostri riflettori, ma che continua con durissimi combattimenti e una tragedia umanitaria: secondo le Nazioni unite, il conflitto in Sudan ha causato da aprile almeno dodicimila vittime e più di sei milioni di sfollati.

Per non parlare di quanto accade in Afghanistan, travolto da una crisi umanitaria senza precedenti, dove gli Usa congelano i fondi del governo talebano e impediscono persino l’attività umanitaria di base. Eppure sono stati loro a riconsegnare il paese dopo 20 anni ai talebani prima con gli accordi di Doha e poi con la fuga da Kabul nel 2021.

Soltanto uno sprovveduto poteva dichiarare che il Medio Oriente è «tranquillo» come ha fatto Sullivan. A meno che non si fosse così ottimisti (o sconsiderati) pensando di stendere un velo sulla regione con il “Patto di Abramo”, che puntava a ottenere il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di Paesi come gli Emirati, il Bahrein, il Marocco, il Sudan e, soprattutto, l’Arabia Saudita. Ma ora tutto quanto è finito un binario morto a causa del conflitto in corso nella Striscia.

Ora su Gaza, dopo le rappresaglie indiscriminate e decine di migliaia di morti, si aggira lo spettro dell’espulsione dei palestinesi. Con la conferma alla presidenziali egiziane del generale Al Sisi, si sono moltiplicate le pressioni sul Cairo perché si prenda i gazawi, o almeno una parte di loro. Una questione esplosiva e un’opzione per ora respinta da al-Sisi. Eppure in un paio di mesi l’Egitto ha ricevuto, o ottenuto la promessa, di prestiti e aiuti per 26 miliardi di dollari, 9 miliardi di euro dall’Unione europea. Dietro le quinte si sta già scrivendo un storia amara sulla pelle dei palestinesi.

23/12/2023

da Il Manifesto

Alberto Negri