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Gli stipendi nel 2023 sono cresciuti la metà dell’inflazione: la contrattazione collettiva ha fallito

Gli stipendi nel 2023 sono cresciuti la metà dell’inflazione: la contrattazione collettiva ha fallito

I dati Istat mostrano il fallimento della contrattazione collettiva: nel 2023 gli stipendi sono cresciuti molto meno dell'inflazione. 

Le retribuzioni dei lavoratori italiani continuano a crescere troppo lentamente e così il potere d’acquisto delle famiglie si assottiglia. E a pesare è soprattutto il mancato rinnovo dei contratti che smentisce la narrazione del governo sul salario minimo quando afferma che per far crescere gli stipendi è necessario puntare sulla contrattazione collettiva.

Sono questi i due aspetti che emergono dai dati Istat sui contratti collettivi e le retribuzioni contrattuali. In particolare, nella media del 2023 l’indice delle retribuzioni orarie è cresciuta solamente del 3,1%, ovvero molto meno dell’inflazione.

I DATI ISTAT SULLE RETRIBUZIONI E IL MANCATO RINNOVO DEI CONTRATTI

Uno dei dati che emerge dall’analisi dell’Istat è che a dicembre l’indice mensile è aumentato del 5,1% rispetto a novembre, ma a farla da padrone sono soprattutto gli stipendi della pubblica amministrazione (+22,2%). In particolare parliamo di aumenti del 37% per la scuola, del 33% per i ministeri e del 29% per il comparto difesa. Nessun incremento, invece, per farmacie private, pubblici esercizi, alberghi e telecomunicazioni. Insomma, la contrattazione collettiva funziona solo nel pubblico, nel privato i salari restano fermi. 

Tanto che proprio l’istituto di statistica sottolinea che il valore di dicembre è fortemente influenzato dall’erogazione anticipata dell’incremento dell’indennità di vacanza contrattuale per i dipendenti a tempo indeterminato della Pa. Il che, però, vuol dire che a gennaio gli indici faranno segnare una variazione congiunturale negativa. 

I contratti in attesa di rinnovo, invece, a fine dicembre 2023 sono 29, coinvolgendo ben 6,5 milioni di lavoratori dipendenti. Ovvero più di uno su due, il 52,4%. I contratti collettivi oggi in vigore, invece, riguardano il 47,6% dei dipendenti (circa 5,9 milioni) e il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi di dicembre. Insomma, l’ennesima certificazione che lo strumento migliore per combattere i salari bassi non è la contrattazione collettiva (come sostiene il governo), visto quanto procede a rilento. 

GLI STIPENDI ITALIANI FERMI: AUMENTANO MOLTO MENO DELL’INFLAZIONE

A far notare come l’aumento delle retribuzioni non basti in alcun modo per compensare l’inflazione sono diverse associazioni a difesa dei consumatori. Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, ritiene “scandaloso che le retribuzioni crescano nel 2023 solo del 3,1%, quando l’inflazione media annua dello scorso anno è stata pari, secondo l’indice Ipca, al 5,9%, ossia quasi il doppio”.

Per Dona è “un diritto del lavoratore avere una busta paga dignitosa, un diritto previsto dall’art. 36 della Costituzione che però è da anni sistematicamente violato. Questa situazione vergognosa va a braccetto con il dato del tempo medio di attesa di rinnovo che segna un balzo inaccettabile”.

Simile anche la posizione del Codacons, che sottolinea come le retribuzioni siano salite quasi la metà dell’inflazione: “Questo significa che prezzi e tariffe sono saliti più delle retribuzioni, portando le famiglie a ridurre i consumi e a ricorrere ai risparmi per far fronte alla spesa”.

01/02/2024

da La Notizia