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Tassi alle stelle: le banche ringraziano la BCE

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Economia e Finanza

Cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca? (Bertold Brecht)

Chiunque abbia provato, negli ultimi mesi, a chiedere un mutuo o un prestito, ha scoperto sulla sua pelle cosa significa dover pagare una quantità enorme di interessi. L’onere per un mutuo per acquistare una casa nel corso del 2022 e del 2023 è cresciuto così intensamente da risultare uno degli elementi determinanti dell’impoverimento delle famiglie in Italia e altrove in Europa.

Una scelta pienamente politica quella dell’aumento dei tassi stabilita dalla BCE con la scusa di voler combattere l’inflazione sulla base di fantasiose interpretazioni del fenomeno come se fosse legato ad una tensione dal lato della domanda e richiedesse quindi manovre di tipo restrittivo per calmierare l’economia. Una lettura delirante e in evidente malafede che è servita essenzialmente a due cose: 1) da un lato a deprimere le economie contribuendo ad aggravare crisi e disoccupazione depotenziando così – per questa via – il potere contrattuale dei lavoratori (che è inversamente proporzionale al livello di disoccupazione esistente e di sicurezza del lavoro). Quest’obiettivo implicito è stato persino reso esplicito da recenti dichiarazioni del capo economista della BCE Philippe Lane che ha spiegato che, pur essendo decisamente calata l’inflazione, prima di abbassare eventualmente i tassi di interesse servono garanzie che i salari dei lavoratori non stiano aumentando;  2) la seconda funzione dell’aumento dei tassi è stata quella incrementare in modo vistoso i profitti bancari. Ed è proprio di questi profitti che vogliamo parlare.

La scorsa estate la boutade di facciata della tassa sugli extraprofitti bancari, (con i suoi effetti praticamente nulli) aveva reso chiare le intenzioni del governo rispetto al bengodi delle banche.
Dopo la chiusura dei bilanci a fine 2023, negli ultimi giorni sono usciti i dati sui profitti delle principali banche italiane: 8,6 miliardi Unicredit e 7,7 Intesa San Paolo. Numeri così importanti che secondo le notizie di stampa rappresenterebbero il “miglior anno di sempre” per le due banche più grosse del sistema italiano. È evidente che la decantata tassa sugli extraprofitti non è servita a molto. Per avere una visione delle cifre in ballo ricordiamo che il Reddito di cittadinanza, abolito dal Governo Meloni nel 2023, è costato meno di 8 miliardi nel 2022. Mentre le due principali banche italiane hanno fatto profitti per oltre 16 miliardi nel 2023. Solamente le due banche principali, poi ci sono tutte le altre…

Comunque, da cosa derivano questi super profitti? Principalmente dal fatto che, quando la Banca Centrale Europea ha aumentato i tassi d’interesse nell’estate del 2022, le banche italiane hanno pensato bene di alzare sì i tassi d’interesse sui prestiti, ma di non alzarli sui depositi. Le banche, come noto, guadagnano dalla differenza tra il tasso d’interesse sugli impieghi (come i prestiti) e quello che pagano sulla raccolta (come i depositi). Aumentando il differenziale, a parità delle altre condizioni, il profitto aumenta. Per esempio, con un conto molto grossolano, considerando che la giacenza media dei conti correnti degli italiani è poco più di 20.000 euro e i tassi di interesse riconosciuti sui depositi si aggirano ad oggi attorno allo 0,1%, considerando che i correntisti Italiani sono circa 47 milioni, otteniamo una spesa di circa 9 miliardi e mezzo. Se per il singolo cliente la quota interessi su un deposito può apparire una cifra esigua, in sommatoria non si tratta certo di un ammontare trascurabile per le banche e le oscillazioni di questa cifra in alto o in basso evidentemente determinano in modo rilevante i margini di profitto di ciascuna banca.

In teoria la concorrenza dovrebbe spingere i tassi sui depositi ad alzarsi, ma la presenza di meccanismi collusivi che portano le banche a fare cartello in un mercato molto concentrato dominato dallo strapotere delle due banche principali del paese (Intesa SanPaolo e Unicredit) che detengono insieme il 35% di quote di mercato,[1] ha permesso che ciò non accadesse, alla faccia della libera concorrenza così decantata dai liberisti di turno.

Da rilevare inoltre durante la pandemia e il periodo dei tassi negativi e del quantitative easing, le banche lamentavano pochi profitti e hanno quindi iniziato ad alzare i costi su operazioni e commissioni. Questi costi non sono stati abbassati successivamente nel momento in cui vi è stato il rialzo dei tassi. A salari nominali dei lavoratori stagnanti (o cresciuti assai meno del livello generale dei prezzi) tutto questo ha implica per le banche (così come per tutte le altre imprese) un aumento dei margini di profitto.

La messinscena dell’imposta sugli extraprofitti bancari dell’estate 2023, come visto, si è risolta in un nulla di fatto. Lo Stato italiano ha ottenuto un gettito irrisorio poiché alle banche è stata garantita una via di fuga dall’imposta tramite la possibilità di accantonare i fondi per rinforzare il patrimonio. Le banche così continuano allegramente a macinare profitti sulla nostra pelle gravando le famiglie di oneri insostenibili per l’acquisto della casa e scoraggiando il credito delle imprese e quindi gli investimenti, dando in cambio ai correntisti che gli prestano soldi misere briciole.

Quali conclusioni trarre da questa triste storia? In primis il punto non è tassare gli extraprofitti come mossa estemporanea (e per di più, nella fattispecie, puramente di facciata), ma occorre invece tassare i profitti in generale. Tassarli tutti e tassarli di più e tassarli in forma progressiva. Bancari e di tutte le imprese.

Allo stesso tempo occorre ripristinare un controllo pubblico serrato sul sistema bancario tramite la sua almeno parziale e graduale nazionalizzazione che comporti la presenza importante e capillare dello Stato nel settore del credito, come del resto fu fino al principio degli anni ’90 (prima dell’ondata delle grandi privatizzazioni in Italia il 70% di capitale bancario aveva natura pubblica). Questo eviterebbe l’ulteriore estrazione di profitti dai salari dei lavoratori per due motivi. Perché le banche pubbliche aumenterebbero subito i tassi sui depositi e se le altre banche non seguissero questa scelta i clienti si sposterebbero verso le prime; e perché le banche pubbliche non orientate in prima battuta al profitto, riuscirebbero a imporre tassi più bassi sui prestiti calmierando così il mercato.

Infine, la presenza di banche pubbliche bloccherebbe la propagazione e l’insorgere di molte crisi finanziarie e permetterebbe di finanziare più facilmente sia il diritto all’abitare sia una politica industriale volta alla piena occupazione, allo sviluppo dei settori strategici e alla tutela dell’ambiente, ripristinando e imponendo quel necessario controllo pubblico dell’economia che passa anche attraverso il sistema creditizio.

 

[1] Per quota di mercato si intende la percentuale di clientela (nel caso delle banche le imprese e le famiglie che prendono denaro a prestito) intercettata da un’impresa sul totale della domanda di mercato.

19/02/2024

Da Coniare Rivolta

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