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Lea, l’ennesimo rinvio delle prestazioni sanitarie colpisce soprattutto il Sud. Dai tumori ai disturbi alimentari: chi non può pagare rinuncia, anche ai figli

Lea, l’ennesimo rinvio delle prestazioni sanitarie colpisce soprattutto il Sud. Dai tumori ai disturbi alimentari: chi non può pagare rinuncia, anche ai figli

È dal 2017 che i cittadini italiani attendono l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (Lea), ovvero di tutte quelle prestazioni che il Servizio sanitario deve garantire alla popolazione, gratuitamente o tramite il pagamento di un ticket.

Congelato al precedente aggiornamento del 2001, l’elenco degli esami, delle visite e dei trattamenti mutuabili era stato riformato nel 2017, senza però mai entrare in vigore. A sette anni di distanza, migliaia di pazienti sono costretti a rinunciare alle prestazioni a cui avrebbero diritto: procreazione medicalmente assistita, attività specialistica ambulatoriale per la cura dei disturbi alimentari, diagnosi e monitoraggio della celiachia, screening neonatali, adroterapia per i tumori, ausili informatici e di comunicazione per disabili, protesi avanzate per le disabilità motorie. Tutto rimandato ancora di nove mesi. Con un decreto firmato dal ministero della Salute, infatti, la scadenza per l’attuazione dei nuovi Lea, prevista dopo un’iniziale proroga per il primo aprile 2024, viene posticipata ancora a gennaio 2025. Fino ad allora, chi se lo può permettere bypassa il problema e si rivolge alla sanità privata. Tutti gli altri o rinunciano o sono costretti a migrare, a curarsi lontano da casa. Alcune regioni del Nord, infatti, hanno deciso di anticipare i tempi dello Stato e, attingendo ai propri fondi, riescono da anni a garantire una parte delle prestazioni previste dall’aggiornamento dei Lea del 2017. E così il divario tra Nord e Sud nel diritto alla salute continua ad aumentare.

Tra le persone che subiranno le conseguenze dello slittamento ci sono quelle che soffrono di disturbi del comportamento alimentare (dca), circa 4 milioni di italiani (di cui il 70% adolescenti). Circa 4mila i decessi all’anno nella fascia d’età compresa tra i 12 e i 25 anni. “Di disturbi alimentari si continua a morire. Non per la malattia stessa ma per la gravità che la malattia raggiunge quando non è presa in carico – spiega a ilfattoquotidiano.it Aurora Caporossi, fondatrice della non-profit Animenta. L’anoressia nervosa, per esempio, tra le malattie psichiatriche è quella che ha il più alto tasso di mortalità, ma allo stesso tempo ha anche un alto tasso di remissione. È un paradosso, ma significa che se si lavorasse efficacemente sulla prevenzione si riuscirebbe a evitare molti decessi”. Ed è a questo che serviva l’aggiornamento dei Lea: a dare a tutti la possibilità di una prima visita con la quale ottenere una diagnosi e attivare un percorso di cura. “Questo rinvio penalizza tutti i pazienti che non possono permettersi il privato, nonostante questa sia a tutti gli effetti un’epidemia sociale”.

Senza accedere a un centro non si riesce ad avere una diagnosi e iniziare un processo di guarigione. A causa della numerosa richiesta di supporto e della mancata risposta di cura, le liste d’attesa per i centri oscillano dai sei ai dodici mesi. Un tempo lungo durante il quale la patologia può aggravarsi molto, portando anche alla morte del paziente. A gennaio, il ministro della Salute Orazio Schillaci aveva annunciato che, grazie all’aggiornamento dei Lea, i cittadini avrebbero avuto accesso a 16 nuove prestazioni di specialistica ambulatoriale appropriate per il monitoraggio della malattia. “La natura delle esenzioni previste non l’abbiamo mai saputa. Ci auguriamo che riguardino la prima visita e la possibilità di accesso agli ambulatori per i dca, perché le famiglie non sanno dove andare”. Molte, se ne hanno la possibilità economica e organizzativa, sono costrette a migrare. Veri e propri pellegrinaggi in giro per l’Italia per curare i loro cari.

“In tutto il Molise non c’è neanche un centro per i disturbi alimentari – commenta Caporossi -. Ma anche in regioni che sono molto avanti da questo punto di vista, come Umbria e Lombardia, i centri sono pieni”, spiega. Per garantire la continuità terapeutica richiesta da queste patologie, alcuni nuclei sono addirittura costretti al cambio di residenza o a separarsi da una parte della famiglia, impossibilitata a seguire il malato lontano da casa. A queste criticità vanno aggiunte le spese che le famiglie devono sostenere. Per affrontare un dca è necessario il sostegno professionale di una equipe – un medico, un dietista, uno psicologo – e devono essere fronteggiate spese ingenti per medicinali, integratori, psicofarmaci. “Ci sono delle esenzioni – spiega la fondatrice di Animenta -, però attualmente riguardano solo alcuni disturbi, come anoressia e bulimia. E in ogni caso resta il problema che per accedere alle esenzioni è necessario avere la diagnosi, e quindi superare lo scoglio principale dell’ottenimento della prima visita”.

Ottenere cure adeguate resta quindi un privilegio. Come lo è ancora accedere alla procreazione medicalmente assistita (pma). Lo slittamento dell’entrata in vigore dei nuovi Lea, infatti, ha colpito duramente le speranze di migliaia di persone che dal 2017 attendono di poter accedere a questa prestazione tramite il Servizio sanitario. L’infertilità in Italia è un problema diffuso: quasi una coppia su cinque ne è affetta, il 17,5%. “Le persone sono furiose – spiega a ilfattoquotidiano.it Antonino Guglielmino, fondatore della Società Italiana della Riproduzione Umana (Siru). In Italia ormai abbiamo i Lea virtuali. Dopo sette anni di slittamenti, si pensava che fosse arrivato finalmente il momento, l’aspettativa era molto alta. Soprattutto per chi vive al Sud e non ha nessun tipo di assistenza alla procreazione. Dall’autunno scorso molte coppie si sono messe in lista d’attesa in vista del via libera del primo di aprile. Ma il tutto si è risolto in un pesce d’aprile”.

La situazione è peggiore al Sud. In Sicilia, spiega Guglielmino, si paga una cifra decisamente alta per accedere alla pma, anche all’interno degli ospedali. Una barriera economica di quasi 3mila euro che costringe molte persone a rinunciare ad avere dei figli. Tema rilevante se si pensa che l’Italia è uno dei Paesi con il peggiore tasso di natalità d’Europa. L’aggiornamento dei Lea, al contrario, avrebbe avuto un impatto sulla demografia del Paese. Basti pensare che ad oggi il 4,2% delle nascite in Italia avviene grazie alla procreazione medicalmente assistita. “Il danno creato da questi nove mesi di rinvio è rilevante – spiega il fondatore di Siru -. Se c’è una patologia nella coppia, soprattutto nella donna, che determina uno stato di infertilità, le possibilità di concepimento diminuiscono in modo potenzialmente decisivo”. Secondo i dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità, l’età media delle donne che si rivolgono ai centri di pma è di quasi 37 anni. “Gli studi dicono che per questa fascia di età, tra i 36 e i 37 anni, perdere un ulteriore anno ad aspettare l’entrata in vigore dei Lea significa abbassare le possibilità di concepimento dal 26,6% al 23,4%. Una diminuzione di circa il 12%, considerando la variazione percentuale”, dichiara Guglielmino.

Il rammarico del fondatore di Siru è alimentato, inoltre, dal fatto che l’introduzione della pma nei Lea avrebbe avuto un impatto positivo sul rapporto tra medico e paziente. “Una volta inserita la prestazione tra i servizi del Ssn, il paziente si sarebbe sentito al riparo dalle possibili speculazioni – commenta -. Si tratta di un approccio alla medicina totalmente diverso, soprattutto alla luce del fatto che una buona parte dei centri di procreazione medicalmente assistita negli ultimi anni è stata acquisita da gruppi finanziari. Così c’è il rischio che la pma in Italia diventi solo un business, controllato da persone che magari vivono a New York. L’entrata in vigore dei Lea potrebbe mettere un freno a questo processo, e ridurre il potere dei privati”, conclude.

05/04/2024

da Il Fatto Quotidiano

Francesco Lo Torto

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