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Tra incompetenza e mosse politiche: Il DEF del governo Meloni è una scatola vuota

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Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha presentato il Documento di Economia e Finanza per l’anno corrente.

Questo documento dovrebbe, in linea teorica, contenere le stime tendenziali, ovvero le previsioni degli indicatori macroeconomici dei prossimi anni (come l’andamento del PIL, quello del tasso di disoccupazione e dell’inflazione), ma dovrebbe anche prospettare che cosa intende fare il governo in carica nel corso dell’anno. Quest’ultima parte - ovvero le linee di tendenza - si limita a poche pagine, con alcuni classici della politica italiana, come il recupero dell’evasione fiscale. 

Anche altri governi si sono a volte lanciati in DEF vaghi dove la parte sulle programmazione è carente: in particolare il governo Monti nel 2012 e il governo Gentiloni nel 2018 avevano presentato un DEF privo degli obiettivi programmatici. Ma lì si trattava di governi dimissionari. Il governo Meloni, invece, è ancora in carica e appena a metà mandato.

Il documento presentato dal governo è talmente fumoso che non vi è alcuna indicazione su quale tipo di manovra presenterà il governo in autunno. Dal governo fanno sapere che si tratta di una naturale conseguenza della riforma del Patto di stabilità, le cui linee guida arriveranno solo in estate. 

A contribuire c'è anche l’elevata incertezza economica che rende necessario navigare a vista. Tuttavia molti degli interventi previsti dal governo Meloni con la precedente legge di bilancio, si pensi soltanto all’accorpamento degli scaglioni IRPEF, erano stati programmati per un solo anno e finanziati a debito, prendendo tempo mentre si cercavano le coperture: se questi interventi saranno riconfermati come riportano le interviste e le dichiarazioni, da dove si prenderanno le risorse?

Inoltre, l’aspetto meramente economico si mischia in questo caso con quello politico: a breve infatti vi saranno le elezioni europee con una destra in netta ascesa in tutta Europa, anche se difficilmente riuscirà a cambiare gli equilibri di Bruxelles. 

Che cosa prevede il governo Meloni per l’economia italiana

Partiamo appunto dalle stime tendenziali che offrono un quadro di quella che, al netto degli interventi del governo e di shock economici notevoli, dovrebbe essere la situazione del paese dal punto di vista macroeconomico. Rispetto alla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) che il governo presentò in autunno, peggiorano le stime della crescita del PIL e di conseguenza quelle riguardanti il rapporto debito PIL. 

Per quanto riguarda il PIL, come si legge nel documento, se la NADEF stimava una crescita del PIL all’1,2 per cento, le nuove previsioni vedono una contrazione, con una crescita prevista per il 2024 all’uno per cento. Questa contrazione, si legge nel documento, è legata ad una scelta prudenziale, dato l’incerto contesto internazionaleA trainare questa crescita sarebbe la domanda interna, mentre le esportazioni darebbero un impatto nullo sulla crescita del PIL. Per quel che riguarda il lato offerta, il governo nota una situazione migliore per il settore manifatturiero, dopo anni di stagnazione, mentre a rallentare sarà il settore delle costruzioni dopo gli anni degli incentivi abitativi- su cui torneremo dopo. 

Non tutti però sono convinti delle stime di crescita pubblicate dal governo italiano. Già l’Europa, con le previsioni di qualche mese fa, aveva prospettato una crescita ben più flebile, allo 0,7 per cento, dietro a Francia e Spagna, ma davanti alla Germania. Anche le stime di Bankitalia segnalano un certo ottimismo in Via XX Settembre: secondo gli studi di Bankitalia quest’anno il PIL vedrà una crescita dello 0,6 per cento, più contenuta anche rispetto alle previsioni europee. 

Anche per via delle ricadute europee, si è discusso in particolare delle stime riguardanti il debito pubblico. Già in passato avevamo sottolineato come la manovra del governo Meloni avrebbe perso il cosiddetto effetto “palla di neve dovuto all’inflazione, che avrebbe così aiutato il governo a ridurre il debito in maniera più morbida rispetto a tagli o aumenti delle tasse. Il governo aveva invece varato una manovra che finanziava i principali provvedimenti a debito, in particolare l’accorpamento degli scaglioni IRPEF e il taglio del cuneo fiscale. Questo, in un paese in cui il debito pubblico è già particolarmente alto e in passato ha causato non pochi problemi in fasi di recessione, pone di per sé dei problemi, perché diminuisce la resilienza del paese agli shock economici. Con un debito elevato, infatti, è più difficile fare politiche espansive qualora il quadro macroeconomico dovesse peggiorare. 

Se questa era la situazione di partenza, le stime del DEF e gli aggiornamenti dell’Istat offrono una panoramica più complessa. Questo perché, a differenza di quanto preventivato nella NADEF dell’autunno scorso, il rapporto debito PIL nel 2023 non si è assestato al 140 per cento, come si aspettava il governo, ma al 137 percento come ha invece rilevato l’ISTAT. Tecnicamente, questo prospettava una situazione più ottimista, ma proprio i dati contenuti nel DEF offrono un quadro ancora diverso. Al netto dei dati del 2023, le previsioni autunnali lasciavano intravedere un piano di rientro del debito nei prossimi anni, mentre il DEF rileva come il debito andrà aumentando nei prossimi anni per poi cominciare a calare soltanto dal 2027. Questo significa che, nonostante l’aiuto dell’inflazione, il debito stimato nella traiettoria discendente della NADEF e in quella crescente del DEF si ritroverà più o meno allo stesso livello nel 2026. Proprio questa inversione di rotta preoccupa la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni: nelle prossime settimane è infatti previsto il verdetto di Standard & Poor’s sul debito italiano. Secondo le indiscrezioni di Monica Guerzoni pubblicate sul Corriere della Sera, la Presidente del Consiglio sarebbe preoccupata proprio di un giudizio negativo da parte delle agenzie di rating per la gestione dei conti pubblici italiani. 

La situazione non è del tutto negativa per il governo Meloni. Il mercato del lavoro italiano infatti continuerà la sua performance eccellente e contro tutte le attese: le stime prevedono un calo del tasso di disoccupazione, dal 7,7 per cento del 2023 fino al 6,8 per cento del 2027. È tuttavia necessario fare attenzione: queste sono stime, non dicono nulla sui fenomeni che ne stanno alla base. Per questo il governo Meloni può portare a casa solo una mezza vittoria, visto che la performance positiva del mercato del lavoro continua da vari governi, è trasversale ai paesi occidentali e soprattutto l’Italia rimane uno dei paesi OECD con il più elevato tasso di disoccupazione, specie se si tiene conto dei disoccupati di lungo corso e del fenomeno della disoccupazione giovanile. 

I problemi del governo Meloni e la programmazione di Giorgetti

La situazione appena descritta pone degli interrogativi sulle strategie che il governo intenderà seguire nel corso delle successive manovre di bilancio. Nonostante il governo giustifichi la vaghezza del documento con le nuove regole del Patto di Stabilità, che entreranno in vigore solo in estate, resta la necessità di capire dove saranno reperite le risorse. Innanzitutto i 6 miliardi che servono per rientrare all’interno dei nuovi parametri del Patto di Stabilità stesso. E soprattutto servirà trovare circa 15 miliardi per il rinnovo delle misure che il governo Meloni ha varato in via sperimentale per il solo 2024, come appunto il rinnovo del taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento degli scaglioni IRPEF.

Questi provvedimenti, spiega Andrea Brandolini, vice capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, potrebbero aver avuto un impatto sul reddito disponibile delle famiglie: utilizzando il modello di microsimulazione di Banca d’Italia, gli interventi comportano in media un aumento dell’1,5 percento del reddito disponibile delle famiglie o, per dirla in maniera più comprensibile, 600 euro annui. Gli interventi andrebbero anche a diminuire, seppur debolmente, l’indice di Gini sulla disuguaglianza del reddito. 

Se il governo non è in grado di ragionare in termini di pochi mesi, visto che questi soldi vanno trovati entro l’autunno, sarà ancora più difficile ragionare sulla strada da seguire con il Patto di Stabilità. Si tratta infatti di una programmazione su un orizzonte temporale di almeno quattro anni, come sottolinea su La Voce Giuseppe Pisauro, ex presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Proprio Pisauro, però, fa notare come in qualche modo degli indirizzi programmatici ce li abbia offerti quello che ha chiamato il “DEF orale”ovvero la conferenza stampa di Giorgetti dopo la presentazione del documento. A detta del ministro dell’Economia e delle Finanze i provvedimenti saranno riconfermati anche per quest’anno. Sulle coperture però la questione è più fumosa. Il ministro Giorgetti ha sposato l’idea, proposta da Milano Finanza, di vendere gli immobili di proprietà statale per ripagare il debito, aggiungendo tuttavia che  la parte più remunerativa del patrimonio pubblico è già stata venduta in un altro frangente storico. 

C’è poi da tenere in considerazione, ed è forse l’aspetto più importante sotto questo frangente, l’impatto che il Superbonus sta avendo sui conti pubblici. La misura, approvata dal governo Conte II dopo la fine del primo lockdown per rilanciare l’economia italiana, sta avendo un impatto considerevole sul bilancio pubblico, soprattutto a causa dell’imprevedibilità della spesa. Il rincaro delle materie prime e i continui cambiamenti sulle modalità di erogazione sulla platea dei beneficiari hanno contribuito a questa incertezza. 

A questo si aggiungono questioni di natura contabile su come calcolare la spesa per lo stato del superbonus. Se in precedenza le spese venivano spalmate nel corso degli anni necessari per il rimborso crediti, oggi la spesa per intervento viene contabilizzata nell’anno corrente. Se le risorse spese restano, di fatto, le stesse, quello che cambia sono i margini di manovra per la politica di bilancio dell’anno corrente che si ritrova così il fardello di tutti gli interventi avviati: questo sta facendo schizzare il deficit. Come spiegato su Il Post, lo scorso anno fornisce un esempio paradigmatico: il deficit nel DEF era stimato al 4,5 per cento del PIL, per poi salire al 5,3 nella NADEF e infine, secondo l’ISTAT, al 7,2. Tutti questi aumenti sono stati giustificati con il costo superiore alle attese dei bonus edilizi. Il governo Meloni è intervenuto sul Superbonus e bisognerà capire- e ci vorrà tempo- quanto questo influirà  

C’è da considerare infine l’aspetto politico già menzionato. Come scritto dall’economista ed ex senatore Carlo Cottarelli, la fumosità del DEF è in realtà una mossa elettorale. A breve infatti vi saranno le elezioni europee e il governo Meloni non vuole svelare le carte di quanti sacrifici dovrà fare il nostro paese per rientrare all’interno dei parametri voluti dalle nuove regole europee di bilancio. La speranza di Meloni è che, dopo le elezioni europee, emerga una maggioranza più favorevole alle sue politiche, a partire dalle modifiche al PNRR. Come visto in precedenza, la performance del PIL è sotto le attese, e in parte la colpa è da addossare all’incapacità da parte del governo italiano (anche se non è l’unico in Europa) a spendere i soldi del PNRR entro i termini prestabiliti. 

La scadenza del piano è fissata per il 2026, e l’Italia ha accumulato vari ritardi, soprattutto al ministero delle Infrastrutture presieduto da Matteo Salvini. Nonostante la mancanza di dati trasparenti, un’analisi di Openpolis sottolinea come il 78 per cento dei fondi sarebbero ancora da spendere. La speranza di Meloni quindi è che la prossima commissione sia più aperta a una revisione del piano per allungare i termini, mentre gli odierni commissari Gentiloni e Dombrovskis rifiutano l’idea. 

Il DEF “snello e leggero” mostra la scarsa lungimiranza del governo Meloni

Non si possono addossare al governo tutte le colpe per i danni passati, come quelli riguardanti il Superbonus. Ma questo DEF atipico, definito invece “snello e leggero” dalla Presidente del Consiglio, è sintomatico della scarsa lungimiranza e dell’incompetenza che aleggia sulla compagine di governo. Il governo è a caccia di risorse, ma il vincolo è di non toccare gli interessi che rappresenta e di chi potrebbe votare per i partiti di governo alle prossime elezioni. Questo lascia poco spazio di manovra al governo, che andrà all’incasso con qualche cessione di patrimonio pubblico: una strategia meno conveniente sul lungo periodo, ma che permette di avere risorse nell’immediato. Non manca poi la scarsa considerazione di piani più strutturati al fine di salvaguardare il reddito delle famiglie: dal salario minimo a una politica industriale più ragionata. 

Ma questo significherebbe avere un orizzonte politico che va oltre le prossime elezioni europee. La speranza del governo è una nuova commissione (magari ancora a guida Von Der Leyen) che guardi con maggior apertura all’Italia, vista come uno dei paesi principali della rivoluzione reazionaria che si sta diffondendo in Europa. Questa speranza sembra vana. Stando ai sondaggi, il prossimo parlamento europeo continuerà ad avere una maggioranza “di larghe intese”. Ma anche considerando un cambio di maggioranza, questo comporterebbe un’alleanza tra il Partito Popolare, Renew Europe e l’Alleanza dei Riformisti e Conservatori di cui fa parte proprio il partito di Meloni. Eppure questi partiti non possono essere di certo definiti meno inclini a politiche di bilancio stringenti, semmai il contrario.

L’ipotesi più probabile però è che, anche tenendo in considerazione maggiori margini lasciati dalla commissione, il governo Meloni si troverà a dover prendere decisioni che potrebbero scontentare gli italiani. Anche se, come abbiamo visto con il caso carburanti, la propaganda governativa è molto efficace.

13/04/2024

da Valigia Blu

Mattia Marasti

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