28/08/2025
da Left
Comunione e Liberazione applaude, fedele alla sua antica inclinazione a carezzare il potere, qualsiasi volto indossi
C’è un tratto costante nell’ultima stagione di Giorgia Meloni: trasformare ogni palco in un contro-parlamento. Al Meeting di Rimini ha ripetuto il canovaccio: santini e poeti, promesse per «famiglie» e scuole private, poi l’affondo contro giudici e migranti. «Le toghe non ci fermeranno», «non c’è giudice, politico o burocrate» che le impedirà di imporre il suo schema securitario. La fiera devota diventa tribunale itinerante: la premier accusa, decide, assolve se stessa.
Il dettaglio politico, più che estetico, è la gestione della parola pubblica. Meloni è fieramente allergica alle domande: lo ha detto a Trump con un orgoglio che suona programma, e a Rimini l’hanno blindata perfino dai cronisti. Niente conferenze stampa, pochi spigoli imprevisti, molto palco amico per «fare opposizione all’opposizione». E Comunione e Liberazione applaude, fedele alla sua antica inclinazione a carezzare il potere, qualsiasi volto indossi.
Nel merito, la sostanza sta nei bersagli. La riforma della giustizia è proclamata come liberazione dalle «correnti», ma si addita una «minoranza di giudici politicizzati» come nemico politico. Sull’immigrazione si rivendicano i campi in Albania e la guerra alle Ong; sul welfare si invoca la «libertà educativa» con più fondi alle private; sui salari, silenzio. È una pedagogia del consenso che alimenta tifoserie e non risposte. Gli applausi di Rimini dicono molto di lei, ma soprattutto di chi preferisce il quieto zelo all’utile contraddizione.