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Allora del clima non ve ne frega niente

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Ambiente

24/11/2025

da Valori

Andrea Barolini

Dalla Cop30 di Belém sul clima si è usciti con un testo piatto, deludente e con il mondo sempre più diviso

Ciascuno per sé. Non c’è altro modo di descrivere la trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite che si è conclusa sabato 22 novembre a Belém, in Brasile. La Cop30 è stata, diciamolo, surreale e caotica da tanti punti di vista. 

Tentiamo una difficilissima sintesi. Nei primi giorni ci siamo, di fatto, tutti illusi. La presidenza brasiliana aveva infatti pubblicato dei testi provvisori che presentavano anche alcune opzioni decisamente ambiziose, in particolare su quello che era stato declamato come l’obiettivo principale della Cop30: adottare una roadmap per l’uscita dalle fonti fossili. È quell’anche che molti hanno sottovalutato.

Alle Cop30 nessun risultato sulle fonti fossili né sulla deforestazione

A fronte di quelle opzioni ambiziose ce n’erano troppe che non lo erano affatto. E soprattutto troppi ipotesi di «no text», che indicavano che qualche governo chiedeva di saltare a piè pari le questioni. Così, a due giorni dalla fine della conferenza è arrivata la doccia fredda. Qualsivoglia ipotesi di dare corpo dalla locuzione anodina e vaga (ma a due anni di distanza, occorre dire, benedetta) uscita dalla Cop28 di Dubai – transitioning away from fossil fuels – è stata abbandonata. Le parole fossil fuels non figuravano più in nessun passaggio della bozza. 

Raggelante, rispetto ai primi giorni di negoziati, nel corso dei quali il dinamismo della presidenza brasiliana – pronta anche a rompere i protocolli pur di arrivare “a dama” – aveva davvero fatto sperare in un risultato positivo. Leggendo quella bozza così piatta e svuotata di contenuti, molti hanno perfino pensato a una tattica: «Che la presidenza lo abbia fatto per sparigliare?». Tanto è stato lo stupore che si è cercato di leggerci, appunto, una strategia. 

E invece no. La realtà era ed è, semplicemente, che nel mondo non c’è accordo. La necessità di superare la dipendenza da carbone, petrolio e gas non è condivisa da tutti. Soprattutto, non lo è dai Paesi che bruciano la stragrande maggioranza di quelle fonti fossili. Stati Uniti, Cina, India e Russia. E sì, certamente: sulla Cina andrebbe fatto un discorso diverso, poiché la posizione di Pechino non è quella di Washington, non c’è alcun dubbio. Ma di fatto, la realtà che occorre dirsi è che «basterebbe un G2 per risolvere il problema dei cambiamenti climatici» (almeno dal punto di vista della mitigazione), come suggerito a Belém da Tommaso Perrone, uno dei giornalisti più esperti di Cop e di negoziati.

I risultati raggiunti alla Cop30 di cui non possiamo accontentarci

È questo il “ciascuno per sé”. Sul superamento delle fonti fossili a dire di no sono i Paesi che le estraggono, le vendono e/o ne sono fortemente dipendenti. Sui trasferimenti di fondi e tecnologia a favore dei Paesi in via di sviluppo a dire di no sono coloro che hanno prosperato per quasi due secoli devastando il Pianeta. Sugli indennizzi per perdite e danni subiti dalle nazioni più vulnerabili della Terra, idem. 

Neppure sulla deforestazione si è riusciti a raggiungere un risultato, nonostante fosse la prima Cop «alle porte dell’Amazzonia». E di certo non ci si può – di più: non di ci deve! – accontentare del fatto che il testo finale indica una “chiamata” (che non è un imperativo) per triplicare i fondi per l’adattamento al 2035 (cinque anni più tardi rispetto alla bozza precedente). Né del fatto che si lanci un Global Implementation Accelerator (Acceleratore globale per l’implementazione, in italiano), senza spiegare né cosa sia né come funzionerà, ma precisando a chiarissime lettere che sarà a carattere volontario. 

O forse si dovrebbe esultare perché è stato timidamente chiesto ai governi di rivedere le loro promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, perché quelle attuali ci porteranno, se va bene, a 2,3-2,5 gradi di riscaldamento globale? O perché è stata lanciata la “Belém Mission to 1.5°C”, anche qui senza spiegare di cosa si tratterà e indicando che comunque se ne riparlerà alla Cop31? O perché, con fatica, si è accettata l’idea di istituire un Just transition mechanism per rafforzare la cooperazione internazionale per una transizione equa? O che l’Unione europea è stata piuttosto collaborativa sulla mitigazione (meno su altri temi)? Sarebbe come accontentarsi perché a un malato di cancro in stadio avanzato è stato concesso un decimo di ciclo di chemioterapia.

All’ultima plenaria a Belém sono volati stracci

Sinceramente, scherziamo? Per giudicare qualcosa è sempre bene fare un paio di passi indietro e osservare la “big picture”. Alla Cop30 si è perfino dovuto tirare un sospiro di sollievo perché è stato citato l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale a un massimo di 1,5 gradi centigradi! Obiettivo che era ormai apparso come assodato in passato, anche dopo che l’Ipcc aveva spiegato (nello Special Report 1.5, nell’ottobre del 2018!) che la differenza tra 1,5 e 2 gradi è passare da una crisi a una catastrofe. 

Ciascuno per sé, dicevamo. Ed è così, di fatto, da un decennio (a partire dalla Cop22 di Marrakech). Un egoismo di fondo che finora era stato – non sempre, ma spesso – mascherato dai compromessi e dal bon ton. Che è mancato clamorosamente durante l’ultima plenaria alla Cop30, con alcune nazioni che hanno letteralmente sbattuto i pugni sul tavolo, con accuse reciproche e dita puntate addosso. Come in una riunione di famiglia obbligata nella quale a un certo punto, improvvisamente, tutti i rancori esplodono in modo dirompente. E sì, anche questo in fondo è multilateralismo. Ma intanto il tempo corre, e a furia di accontentarsi di andare a passo d’uomo ci risveglieremo che è troppo tardi (come se non fosse già troppo tardi).

L’elefante nella stanza alla Cop30 di cui non si parla mai

Ma c’era un elefante nella stanza, in quella plenaria, di cui troppo spesso ci dimentichiamo. Perché quel “ciascuno per sé” ha una matrice culturale chiara, rintracciabile indiscutibilmente nel nostro modello di sviluppo. La Cop30 non è stata altro se non lo specchio di un sistema predatorio, colonialista, individualista e orientato al solo obiettivo di massimizzare i profitti, i guadagni personali, gli interessi di parte. Interessi diversi, a volte contrapposti, ma ai quali nessuno vuole rinunciare. È l’economia capitalista e ultra-liberista a spingere in quella direzione: ciascuna nazione ha il mandato, di fatto, di fare ciò che credono sia “meglio” per il loro microcosmo di periferia. 

E no, non è massimalismo, non è estremismo additare il sistema economico. Gli estremisti sono quelli che preferiscono distruggere gli equilibri del Pianeta pur di non rinunciare ai propri privilegi. Unica cosa che interessa davvero. Finché non cambieremo questo sistema di valori, non ne usciremo.

È per questo che arrovellarsi su riforme delle Cop per superare le impasse, forse, è un esercizio inutile, senza una riflessione culturale più ampia. Senza la quale non possiamo far altro che accodarci agli stracci che sono volati alla plenaria conclusiva di Belém e dircelo chiaramente, una volta per tutte: del clima, a troppi governi – perdonate il linguaggio rozzo – non frega davvero niente. 

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