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Almasri, archiviata solo Meloni. E lei attacca: «Assurdo»

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La rivendicazione. La richiesta di autorizzazione a procedere sul caso del torturatore libico sarà per Nordio, Piantedosi e Mantovano. La difesa dell’esecutivo da tecnica diventa politica. Potrebbe essere il preludio del segreto di Stato

«Al momento non è pervenuta nessuna carta del dossier Almasri dal tribunale dei Ministri», comunica il presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera Devis Dori, deputato di Alleanza verdi e sinistra. Le carte arriveranno però nei prossimi giorni dalla procura di Roma e riguardano le posizioni del guardasigilli Carlo Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano. Tanto si evince dal provvedimento di archiviazione firmato dalle tre giudici che compongono il collegio del tribunale dei ministri l’uno agosto e poi notificato alla premier Giorgia Meloni.

IERI SERA ne ha dato notizia lei stessa scrivendo su X: «Hanno archiviato la mia sola posizione, mentre dal decreto desumo che verrà chiesta l’autorizzazione a procedere» per gli altri indagati. E ancora: «Si sostiene che due autorevoli Ministri e il sottosegretario da me delegato all’intelligence abbiano agito su una vicenda così seria senza aver condiviso con me le decisioni assunte». La presidente del Consiglio annuncia l’intenzione di ribadire in parlamento «la correttezza dell’operato dell’intero Esecutivo». Dice che lo farà «accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano al momento del voto sull’autorizzazione a procedere». Se mai si terrà, visto che la dichiarazione di ieri potrebbe alludere all’apposizione del segreto di Stato.

La decisione delle giudici si fonda sulle sommarie informazioni rese dal capo dei servizi esterni Giovanni Caravelli secondo il quale, si legge nelle carte, la premier era stata «sicuramente informata» dell’affaire mentre mancherebbero dettagli «circa portata, natura, entità e finalità sotto il profilo della sua condivisione delle decisioni adottate».

IL CASO DEL TORTURATORE libico, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità dalla Corte penale internazionale (Cpi), inizia il 6 gennaio. Nijeem Osama Almasri, allora capo della polizia giudiziaria della Tripolitana e responsabile della prigione di Mitiga, arriva a Londra dopo uno scalo a Roma. Trascorre una settimana nel Regno Unito, poi raggiunge Bruxelles e da lì Berlino. Il 18 gennaio è a Torino per assistere a una partita di calcio. Intanto la Corte ha spiccato il mandato d’arresto internazionale: nel carcere di cui è stato responsabile dal 2011 si sono consumati decine di omicidi, torture e stupri. Anche contro bambini.

Domenica 10 gennaio Almasri viene fermato dalla polizia torinese e portato in carcere. Ci resterà appena due giorni. Perché martedì viene liberato dalla Corte d’appello di Roma su richiesta della procura generale, espulso dal Viminale, caricato su un Falcon tricolore e sbarcato a Tripoli, dove lo attendono i suoi miliziani festanti.

La premier era stata informata ma non ci sono dettagli circa portata, natura, entità e finalità sotto il profilo della sua condivisione delle decisioni
Il tribunale dei ministri

I giudici gli aprono le porte del carcere «per mancata trasmissione degli atti della Corte penale internazionale di competenza ministeriale». Quando leggono la sentenza l’aereo di Stato è atterrato a Torino da diverse ore. Il governo, con Nordio in testa, prima agita una teoria del complotto contro la Cpi che avrebbe emesso il mandato solo quando la patata bollente era sconfinata in territorio italiano, poi si trincera dietro una serie di tecnicismi: l’atto sarebbe stato lacunoso, pieno di errori, non convincente. Tutte circostanze negate dal tribunale dell’Aja nel successivo carteggio con l’Italia.

IL GUARDASIGILLI deve arrampicarsi sugli specchi per giustificare la mancata cooperazione con la Cpi che ha portato alla scarcerazione. È via Arenula il cuore del caso. Già domenica 19 gennaio l’allora vertice del dipartimento per gli Affari di giustizia (Dag) Luigi Birritteri esprime la necessità di un «atto urgente» da parte del ministro. La capo di gabinetto Giusi Bartolozzi risponde di essere informata del caso. E intanto raccomanda qua e là massima discrezione. Tra gli interrogativi nelle mani degli inquirenti, dunque, c’è quello sul grado di consapevolezza di Nordio rispetto all’intera vicenda. Che il ministro ha sempre tentato di sminuire, accampando malintesi e problemi tecnici.

Resta il fatto che, in attesa di capire con esattezza quali sono i reati della richiesta di autorizzazione a procedere, la nota della presidente del Consiglio segna un cambio di passo nella linea difensiva dell’esecutivo. Ieri è diventata politica, con un’assunzione di responsabilità completa e una rivendicazione netta: liberare il torturatore libico serviva a tutelare la sicurezza degli italiani.

POTREBBE ESSERE il primo passo verso l’apposizione del segreto di Stato. Che taglierebbe fuori il parlamento dove, comunque, non ci sono dubbi: la maggioranza non darà mai ai magistrati la possibilità di indagare i suoi ministri. Soprattutto in questa storia.

05/08/2025

da Il Manifesto

Giansandro Merli, Mario Di Vito

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