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Altro che cortei pro Gaza, l’inchiesta Genus Album smaschera il vero antisemitismo che cresce sulla Rete. E l’ipocrisia di chi distorce la solidarietà

Altro che cortei pro Gaza, l’inchiesta Genus Album smaschera il vero antisemitismo che cresce sulla Rete. E l’ipocrisia di chi distorce la solidarietà

Mentre si accusa chi sostiene la Palestina, un'indagine svela la rete neonazista e antisemita che cresce indisturbata tra i minori

Mentre si grida all’antisemitismo per delegittimare chi denuncia i crimini a Gaza, l’estrema destra italiana continua a coltivare l’odio razziale e la nostalgia del nazismo, anche tra i più giovani.

Nel dibattito pubblico italiano – come in molti altri paesi europei – l’accusa di antisemitismo è diventata un’arma a orologeria. Un’etichetta pronta a scattare contro chiunque critichi le politiche israeliane, anche quando queste violano palesemente il diritto internazionale. È un cortocircuito studiato: chi sostiene i diritti del popolo palestinese viene assimilato a chi nega la Shoah, mentre chi celebra i carnefici in camicia nera resta spesso sullo sfondo, impunito e protetto dal silenzio istituzionale.

Ma la realtà è molto più inquietante di questa rappresentazione mediatica. I veri antisemiti non si trovano nei cortei per la pace, ma nei canali Telegram, nelle chat criptate, nelle soffitte dove si custodiscono copie del Mein Kampf e bandiere naziste. Ed è lì che si muove l’Italia nera, che recluta, addestra, arma e istiga. Anche tra i minori.

Un movimento neonazista che recluta minorenni

L’indagine denominata “Genus Album” – portata alla luce oggi dalla Procura per i Minorenni di Milano e dalla Digos – racconta un’Italia dove l’antisemitismo è strutturato, organizzato, condiviso, digitalizzato. Al centro: un ragazzo di 17 anni, residente in provincia di Como, italiano di origine turca, incensurato. Un paradosso vivente: minorenne, figlio di immigrati, promotore di un sodalizio di estrema destra che diffondeva propaganda razzista, omofoba e apertamente antisemita. Un’organizzazione che si proponeva “spedizioni punitive” e raccoglieva fondi per acquistare armi.

Altro che “ragazzate”: la rete creata dal giovane era un arcipelago digitale articolato, distribuito su più piattaforme. I contenuti, accessibili pubblicamente, includevano apologia della Shoah, incitamenti all’odio, inneggiamenti al Terzo Reich. Tra i materiali sequestrati: bandiere naziste, tirapugni, fucili ad aria compressa e persino pistole. Uno dei canali si chiamava “Tricolore del sangue italico”. È da qui che si pianificavano azioni violente e si reclutavano coetanei.

Complicità adulta, indifferenza istituzionale

La narrazione mediatica tenta di archiviare questi episodi come devianze individuali. E invece si tratta di un sistema. Gli altri minori coinvolti – uno in Friuli-Venezia Giulia, un altro nel Comasco – non erano semplici spettatori, ma complici attivi. A unirli: una subcultura suprematista che si espande silenziosa, protetta dall’anonimato digitale e dall’inerzia sociale. Alcuni dei maggiorenni presenti nei gruppi erano già noti alle forze dell’ordine per reati analoghi. La trasmissione del veleno ideologico è intergenerazionale.

L’obiettivo esplicito era creare un movimento antisistema, costruito sull’odio e sul culto della violenza. La Shoah non era negata: veniva celebrata. È questo il nuovo volto dell’antisemitismo: non più negazionista, ma rivendicativo. Una forma di odio che si esprime non solo contro gli ebrei, ma anche contro ogni forma di alterità: neri, musulmani, omosessuali, antifascisti.

Il ragazzo comasco è stato colpito da una misura cautelare: due mesi di divieto di accesso a internet. L’indagine è stata avviata grazie al monitoraggio degli ambienti dell’estrema destra, ma il sistema fatica a dare risposte strutturali. Le norme ci sono – dalla Legge Mancino all’articolo 604-bis del codice penale – ma non bastano se l’opinione pubblica continua a minimizzare.

L’ipocrisia politica dell’antisemitismo a corrente alternata

Mentre tutto questo accadeva, molti dei commentatori pronti a gridare allo scandalo per una kefiah in piazza o una bandiera palestinese non diranno una parola. Gli stessi ambienti che accusano di antisemitismo chi denuncia il genocidio in corso a Gaza, tacciono da tempo di fronte a chi la Shoah la celebra come modello e ne invoca la replica.

E allora è legittimo chiedersi: chi sono davvero gli antisemiti oggi in Italia? Chi difende la memoria dell’Olocausto, anche per impedire che l’orrore si ripeta in qualunque forma e contro chiunque? O chi strumentalizza l’antisemitismo per delegittimare la critica e lascia proliferare l’odio tra le pieghe del proprio stesso consenso politico?

Il caso Genus Album dimostra che i veri seminatori di odio sono tra noi. Parlano italiano, sono giovani, tecnologicamente sofisticati, reclutano con meme e slogan, vogliono armi. E troppo spesso vengono raccontati come “pecore nere” in cerca di attenzione. Ma le pecore nere non fondano movimenti. I carnefici non vanno umanizzati prima delle vittime.

In tutto questo, il governo trova il tempo per criminalizzare gli studenti che manifestano con le kefiah, ma resta da sempre muto davanti a coloro che pianificano spedizioni punitive contro “i diversi” con pistole e svastiche. Se il pericolo per l’ordine pubblico è quello, allora qualcuno ha smarrito la bussola. O, peggio, la coscienza.

11/06/2025

da La Notizia

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