Egitto contro Israele per genocidio alla Corte di giustizia: superati 35mila morti a Gaza. II fuoco su un’auto dell’Onu al valico di Rafah, nel sud della Striscia da cui fuggono senza alcuna meta o speranza 400mila palestinesi, e combattimenti a Jabaliya, che Israele aveva ‘ripulito, ma dove Hamas lancia persino qualche razzo.
L’offensiva di Rafah per i palestinesi è una partita mortale, ma per Israele è un vero azzardo politico. Diplomaticamente parlando, Netanyahu potrebbe uscirne con tutte le ossa rotte.
Ora anche l’Egitto a dire basta a Israele
Sparare e bombardare a casaccio, in un’area dove sono stipati oltre un milione di rifugiati, causerà nuovi massacri e un’emergenza umanitaria senza precedenti. E così le intese, faticosamente raggiunte con i ‘patrons’ americani e con gli Stati arabi moderati, cominciano a traballare. A entrare particolarmente in fibrillazione, in questa fase, è stato l’Egitto. Il suo Ministero degli Esteri ha annunciato che si costituirà (assieme al Sudafrica) alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, nel sostenere l’accusa di genicidio contro Israele, per la sua condotta nella guerra di Gaza. Una presa di posizione che giunge francamente inattesa, e che solleva preoccupazioni al Dipartimento di Stato, mentre risulta difficile da digerire per Netanyahu.
Uno dei mediatori più importanti per l’eventuale cessate il fuoco, decide addirittura di saltare il fosso e passare dal lato dell’accusa verso uno dei contendenti. Significa che la diplomazia del duo Blinken-Biden non funziona proprio.
Superato ogni limite di ‘Realpolitik’ accettabile
Ma cosa c’è dietro l’improvviso irrigidimento egiziano? Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz così spiega la svolta: «La mossa è stata presa in segno di frustrazione per l’operazione militare israeliana di Rafah, proprio al confine con l’Egitto». Secondo il governo del Cairo, essa arriva «in considerazione dell’aggravarsi dell’intensità e della portata degli attacchi israeliani contro i civili a Gaza e della continua perpetrazione di pratiche sistematiche contro i palestinesi, compreso il bersaglio diretto dei civili e la distruzione delle infrastrutture». Pesante il contenuto e il tono utilizzati dal governo egiziano (che fino a poche ore prima era mediatore) nei confronti delle tattiche israeliane.
Il Cairo parla di «flagrante violazione del diritto internazionale» e invita lo Stato ebraico «a rispettare i principi del diritto in quanto potenza occupante».
Preoccupazioni israeliane
Gli analisti di Tel Aviv sono preoccupati. Non tanto per le conseguenze legali immediate, che potrebbero scaturire dall’azione egiziana proposta all’Aja, quanto dalle ripercussioni sul piano geopolitico e diplomatico. Da molti anni non si registrava, dicono, un momento di crisi così acuta nelle relazioni col potente dirimpettaio. L’Egitto è un Paese di quasi 100 milioni di abitanti, arcistorico nemico di Israele (anche se con lo Stato ebraico ha firmato un trattato di pace), che è la patria del fondamentalismo sunnita, targato ‘Fratelli musulmani’. Insomma, un vicino di casa scomodo. Con un ‘vertice’, il Presidente-generale El-Sisi , amico (e proconsole) dell’Occidente; e una folta base intrisa di islamismo. Ebbene, l’Egitto comincia a dare espliciti segni di insofferenza, rispetto alle aggressive strategie politiche israeliane.
Secondo El-Sisi, Netanyahu ha il grilletto troppo facile e un programma di risistemazione della regione che assomiglia troppo a un’operazione di «pulizia etnica» neppure mascherata.
Questione chiave, Palestina
La vera materia che fa da spartiacque tra i protagonisti si chiama ‘Palestina’. Gli israeliani vorrebbero favorire un ‘esodo’ (chiamiamolo così per carità di patria) di palestinesi, da Gaza e dai Territori occupati (Cisgiordania), verso altre destinazioni. arabe vicine. Si era parlato di ‘pressioni’ sulla Giordania, per quanto riguarda molti rifugiati della West Bank. Si è parlato dell’Egitto (più in dettaglio, del Sinai), invece, come possibile destinazione finale dei «profughi in eccesso» (cioè, cacciati) da Gaza. Gli egiziani non vogliono l’assalto a Rafah per un motivo ben preciso (oltre a quello umanitario): rischierebbero di vedersi arrivare all’improvviso una marea di profughi, che sarebbero obbligati a ricollocare. Con grande gioia degli israeliani.
Sinai bloccato e beduini schierati
Fonti dei servizi segreti del Cairo, hanno fatto sapere al think tank Al-Monitor, che le forze di sicurezza egiziane hanno già organizzato diversi briefing con alcune tribù beduine del deserto. Capi indottrinati (e addestrati) con la raccomandazione che da Gaza, verso il deserto egiziano non deve filtrare nemmeno un palestinese. D’altro canto, affermano gli esperti di strategia, la mossa di Gallant cioè quella di bloccare con l’esercito israeliano il valico di Rafah, lascia il tempo che trova. È più una mossa simbolica, che una manovra destinata a sigillare il transito di confine con l’Egitto. Il motivo è semplice e lo spiega Ofer Shela, dell’Istituto israeliano per la Sicurezza nazionale.
Chiudere Rafah è come mettere il catenaccio a una porta, ma di una stanza senza pareti. Sarebbe necessario controllare tutta la linea di confine, cioè i 14 km. del cosiddetto «Corridoio Filadelphia», tra il mare e il vertice sud-est di Gaza. Ma bisogna mettersi d’accordo con l’Egitto. E così, torniamo punto e a capo.
14/05/2024
da Remocontro