06/10/2025
da Pressenza
Con Antonella Bundu ci conosciamo dal 1987 quando giovane attivista si offrì di rappresentare la Sierra Leone alla Prima Internazionale Umanista che si svolse a Firenze. Da allora ci legano le lotte per i diritti umani, la giustizia sociale, la pace.
Dopo l’esperienza di candidata a Sindaca riprovi con la Presidenza della Regione per la lista Toscana Rossa. Come è andata questa volta la presentazione della lista di sinistra?
Tutto parte nel 2019 con l’esperienza di candidata Sindaca per Sinistra Progetto Comune, che ha portato all’elezione mia e di Dmitrij Palagi in Comune, con 7 consiglieri nei 5 quartieri. Purtroppo, negli anni successivi una parte di quella coalizione ha scelto di uscire, verso il centrosinistra, contribuendo di fatto all’uscita del Consiglio regionale con le elezioni del 2020, quando Sì – Toscana a Sinistra ha mancato la soglia di sbarramento, secondo noi antidemocratica, visto che è al 5% e ci ha costretto a raccogliere 10.000 firme in piena estate poche settimane fa.
L’anno scorso abbiamo comunque voluto fortemente tutelare l’idea di uno spazio autonomo a sinistra del Partito Democratico, perché la nostra attività politica si svolge tutti i giorni anche nelle piazze e nelle lotte. Il lavoro nei quartieri e la relazione con altre esperienze territoriali ci ha portato a essere ancora presenti in tante Città della Toscana, come sinistra di alternativa, e in tutti i quartieri di Firenze, ancora oggi.
Occorre anche ricordarsi come negli anni in alcuni Comuni la sinistra di alternativa ha battuto le destre e il PD al ballottaggio.
Abbiamo lavorato sui contenuti per mesi e quando mi è stato chiesto se volessi mettermi a disposizione per rappresentare la lista Toscana Rossa ho accettato, sapendo che non ci appartiene la cultura dei listini bloccati, ma che le nostre liste (che abbiamo dovuto chiudere molto prima delle altre coalizioni per raccogliere le firme) sono fatte da persone che fanno politica attiva tutti i giorni, nei luoghi di conflitto, lavoro, studio e socialità.
Vogliamo dare risposte a chi non crede nel bipolarismo delle larghe intese, a chi ha perso la fiducia nella politica e a chi pensa di astenersi.
Quali sono i punti per te più significativi del programma?
Noi abbiamo messo anche nel simbolo della lista 4 parole: pace, ambiente, salute e lavoro.
Pensiamo che uno dei punti principali sia quello di rendere la sanità pubblica accessibile a tutte e tutti, invertendo la logica per cui si danno soldi pubblici ai privati, per vedere di abbattere le liste di attesa. Occorre invece limitare l’attività intramoenia, usare i dati e le informazioni di cui la Regione già dispone per allungare l’uso degli spazi pubblici da parte del pubblico, cominciare a investire in modo importante sulla prevenzione, prima che le patologie si acuiscano. Vogliamo riportare la sanità a un maggiore livello di prossimità territoriale, smettendo di rimuovere il ruolo degli enti locali in materia di programmazione, legando in modo sempre più forte sanitario e sociosanitario. Servono più risorse, ovviamente, ma serve anche organizzare diversamente quelle esistenti. Ci sono alcune decisioni che spettano al Governo nazionale, ma invece di limitarsi a qualche dichiarazione stampa, occorre che la Regione si schieri al fianco di chi ogni giorno lavora in sanità, per raccontare precisamente cosa serve, alimentando i conflitti dal basso, per ottenere risposte reali.
Un’altra cosa molto importante per noi è la pace. La Toscana non deve più ospitare strutture militari all’interno dei grandi parchi come il parco di San Rossore; non si deve dare la possibilità all’esercito israeliano di addestrarsi sui nostri territori; la contrarietà al Comando NATO di Rovezzano è imprescindibile. L’11 ottobre 2025 ci sarà una manifestazione importante a Firenze, a cui ovviamente saremo presenti e sarebbe bello che ci fosse anche il Gonfalone della Regione Toscana. Ci sarà dopo che avremo vinto le elezioni del 12 e 13.
Abbiamo bisogno di raccontare quanto meglio si potrebbero spendere i soldi destinati all’aumento delle spese militari. In questi giorni sto girando tutta la Toscana e si vede bene i tanti problemi che segnano in modo particolare le aree interne, la costa e le altre zone in cui l’aspettativa di vita è più bassa, da cui vanno via le giovani generazioni e dove la crisi della natalità è ancora più forte che nel resto della Regione. Se non si garantiscono il diritto alla casa, alla mobilità, alla salute, è chiaro che poi i territori si impoveriscono: è un cane che si morde la coda, nella perdita della centralità che il resto del sistema politico ha dato alla questione sociale, che per noi si lega fortemente a quella ambientale (perché la giustizia climatica è anche un tema sociale e viceversa).
Per garantirci un futuro abbiamo bisogno di investire in politiche di pace, smettendo di usare la parola “pace” solo quando conviene, o non “costa” molto: l’educazione parte dalle scuole, da cui deve tenersi fuori l’esercito. In questa fase storica è fondamentale non avere alcun tipo di ambiguità su questo.
Io noto una certa assenza dal dibattito politico della parola nonviolenza mentre trovo che la parola umanesimo venga spesso banalizzata. Come umanista nonviolento la cosa mi preoccupa un po’. Tu come la vedi?
Anche io penso che l’umanesimo sia una categoria spesso banalizzata in questa fase storica: non fa parte della dialettica politica del momento, anche se sarebbe necessario averla al centro del dibattito politico e culturale.
La nonviolenza sta prendendo piede, nella consapevolezza di tante piazze, ma larga parte del sistema politico non capisce quanto sia uno strumento necessario: per me è l’unico con cui si possono portare avanti le lotte giuste; personalmente sono convintamente nonviolenta e spesso lo sottolineo, perché quando parliamo di azioni giuste che combattono anche leggi ingiuste, dobbiamo usare ogni mezzo possibile, basta che non sia violento.
Per esempio, in una televisione locale regionale pochi giorni fa mi è stato chiesto cosa ne pensassi di un gruppo di studentesse e studenti che aveva interrotto delle lezioni universitarie per dare centralità al tema del massacro del popolo palestinese. Il conduttore insisteva a incalzarmi su questo, per provare a farmi prendere le distanze, ma ho chiarito che la disobbedienza civile può prevedere anche pratiche che sono considerate illecite, o addirittura illegali dal sistema, perché la legalità è una categoria definita soprattutto da chi ha molto potere in poche mani.
Ci sono molto modi di praticare la nonviolenza, la disobbedienza civile: sdraiarsi per terra, fare un picchetto, scioperare forzando il quadro normativo, … Sono tutti modi per denunciare il potere e far comprendere ai potenti che non hanno il controllo su tutto.
Si è esteso in modo eccessivo la difesa di quelli che vengono considerati i pubblici servizi, ma si è arrivati a rendere quasi impossibile scioperare per alcune categorie e a negare la libertà di manifestare in alcune aree dei nostri territori, per difendere il turismo e il diritto al lusso. Anche questa è una forma di violenza, che viene imposta dall’alto verso il basso, limitando la nostra libertà di dissentire, senza violenza.
Aggiungo che anche nelle carceri si sta togliendo sempre più la possibilità di esprimere dissenso, basta vedere l’ultimo decreto sicurezza. Persino chi non aveva libertà fino a ieri, in questo momento, si ritrova ad avere meno libertà.
Ultimamente sei stata oggetto di insulti di infimo livello per il colore della tua pelle. Quanto razzismo c’è ancora in Italia e qual è la differenza con la società multietnica che comunque avanza anche qui da noi?
Mentre butto giù le risposte a queste domande sto tornando dal Mugello, dove ho fatto delle iniziative ed ho partecipato a degli incontri con la cittadinanza, mentre gli altri candidati a Presidente non si sono presentati.
A Borgo San Lorenzo mi hanno raccontato che su alcuni giornali locali è bastata la notizia del mio arrivo a scatenare commenti e messaggi razzisti nei miei confronti, tanto che è stato fatto un comunicato dei circoli di Rifondazione Comunista della zona, chiedendo in particolare a una testata online di mettere un filtro, o cancellare gli insulti (cosa che poi è avvenuta).
Io credo che ci siano forme di razzismo che vengono evidentemente tollerate, se si arriva a vedere persone esporsi con nome e cognome con insulti razzisti anche in contesti con un minore numero di abitanti. Per me non sono insulti personali, non sono io che vengo attaccata, ma il colore della mia pelle, quindi il tema è tutto politico.
Negli incontri io accetto una normale dialettica, tu puoi non essere d’accordo su ciò che dico, puoi esprimere il tuo dissenso e proporre un’altra idea, ma quando finisce sul piano degli insulti (“tornatene nel Burundi” e così via) vuol dire che ancora c’è una mentalità profondamente razzista, che evidentemente si accompagna anche ad una impunità giuridica e sociale. Sicuramente c’è ancora un grande lavoro da fare, non solo sul razzismo ma anche su tutte le forme di discriminazione che segnano la nostra società e sull’incapacità di accettare la diversità.
La società multietnica esiste da tanto tempo. Ci sono le cosiddette seconde generazioni, anche se non mi piace questo termine, che si ritrovano in molti casi senza cittadinanza. Ci sono tante realtà che fanno parte di una società multietnica di fatto. Una delle frasi più significative che mi dicono è: “tornatene nel tuo paese”. Ma io sono nata a Firenze! Quindi è proprio razzismo, una discriminazione che prescinde da qualsiasi altra cosa. Sono italiana, nata in Italia, mia madre è italiana, ma questo non è abbastanza per chi discrimina per il solo colore della pelle. Questa cosa sicuramente sta accompagnando questa campagna elettorale più che nelle campagne elettorale del 2019 e 2024: mi pare che ci sia anche una certa sottovalutazione da parte del sistema politico e istituzionale. Non stiamo parlando di qualche commento sulle piattaforme digitali, ma di vere e proprie campagne di odio, che si inseriscono in comportamenti radicati e ritenuti innocui, o persino accettabili, quantomeno dalle destre e da un pezzo di centrosinistra che non ha pronunciato una parola di solidarietà.
Come vedi la recente mobilitazione popolare intorno alla Global Sumud Flotilla?
L’azione della Flotilla dimostra come si possono cambiare quelli che sono i rapporti di forza, quando tutte le istituzioni (comunali, regionali, nazionali e europee) non hanno risposto adeguatamente, escludendo pochissime eccezioni; servono risposte tempestive, capaci di mettersi contro i più forti. È diventato impossibile restare su posizioni di ambiguità quando scendono in piazza centinaia di migliaia di persone, fino a superare il milione di presenza a Roma l’ultimo sabato. Questo ha modificato la posizione del governo italiano e di molti governi nel mondo; questo è il risultato di una mobilitazione straordinaria.
Non è giusto parlare di guerra. Israele attacca un intero popolo, che non ha mai avuto uno Stato. Dalla questione palestinese può nascere una mobilitazione più complessiva, contro le politiche di guerra e per un’economia radicalmente alternativa a quella che permette di fare profitto sulle armi. Ricordiamo che il Ministro Urso pochi giorni fa ha parlato della riconversione dell’automotive nella produzione di armi.
Io penso che quelle stesse persone che hanno manifestato in questi giorni potranno scendere nuovamente in piazza per dire che non vogliamo questa economia di guerra, che non vogliamo la guerra, che vogliamo una pace giusta, adesso.
I movimenti innescano la presa di coscienza e moltiplicano l’attività di ogni persona, perché si possa arrivare a reali cambiamenti sulle questioni fondamentali.