Aziende storiche in difficoltà pronte a licenziare o chiudere, ammortizzatori sociali che esplodono, l’Ilva appesa all’ennesima gara per il rilancio e la grande malata Stellantis con numeri di produzione da brividi e un accordo con il governo sempre annunciato e mai ratificato.
Due crisi – Wärtsila ed ex Blutec – risolte, almeno si spera, prima dell’estate e una al rettilineo finale (La Perla) sono rondini che non fanno primavera. Anzi, l’autunno alle porte si preannuncia ancora una volta turbolento. Basta scorrere i numeri dei posti di lavoro in bilico, di dipendenti in cassa integrazione o con contratti di solidarietà per comprendere il rischio che esplodano diverse grane nell’industria durante i prossimi mesi. Sono centinaia di migliaia le persone con stipendi ridotti o che arriveranno fino a non si sa quando: un bel grattacapo per il governo, a iniziare dal ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso.
I numeri delle crisi
I dati più freschi a disposizione risalgono all’8 agosto, quando la Cgil ha aggiornato i numeri contenuti in un report di gennaio. Il sindacato ha calcolato che i dipendenti coinvolti nelle crisi industriali per le quali sono aperti tavoli di confronto al Mimit sono oltre 60mila divisi tra 55 aziende. Numeri a cui vanno aggiunte le decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori di società che hanno tavoli aperti a livello regionale: per loro non esiste una mappatura nazionale. E, ancora, ci sono 5.141 dipendenti di aziende che, nonostante ne abbiano fatto richiesta, non hanno un tavolo al ministero. Ma a questi bisogna sommare anche i posti di lavoro a rischio di crisi a causa delle trasformazioni in atto, pari ad altri 120.026: ci sono i 25.459 della siderurgia, altri 8mila nel settore della produzione dell’energia (centrali a carbone e cicli combinati), circa 2.000 nel settore elettrico (a rischio per l’addio al mercato tutelato), quindi 4.094 nella chimica di base, 3.473 nel petrolchimico e nella raffinazione, 8.500 nelle telecomunicazioni. Il settore più a rischio? L’automotive, dove se ne contano circa 70.000. A conti fatti, i posti in ballo sono almeno 180mila.
Stellantis, la grande malata
Come i numeri ufficiali delle crisi non dipingano nel dettaglio lo scenario, lo spiega bene la situazione di Stellantis. Il gruppo automobilistico – con volumi drammatici di produzione nel primo semestre del 2024 – nell’ultimo anno ha varato un piano di uscite incentivate che coinvolgerà 3.600 lavoratori e ha ammortizzatori sociali attivi in quasi tutti gli stabilimenti. Mirafiori resta il caso più eclatante: costretta a chiudere con 20 giorni di anticipo rispetto alle ferie estive, ha riaperto lunedì con 3mila dipendenti in solidarietà fino alla fine dell’anno. E i sindacati temono che per molti loro, già a settembre, possa scattare la cassa integrazione. Nel sito di Melfi, invece, l’ammortizzatore sociale accompagnerà gli operai fino a giugno 2025.
Cassa e solidarietà galoppanti
La cassa integrazione e i contratti di solidarietà sono gli strumenti attraverso i quali si sta supplendo al momento delicato. Tra gennaio e giugno sono state autorizzate – dati Osservatorio Cig dell’Inps – 250 milioni di ore di cassa, oltre il 20% in più dei 207 milioni dello stesso periodo del 2023. A luglio, poi, un ulteriore balzo con richieste accolte per 36,6 milioni di ore: +28% anno su anno. Numeri e storie delle aziende sono stati messi insieme dalla Cgil su Collettiva: raccontano bene come la spina dorsale dell’economia del Paese sia acciaccata e cammini su un crinale pericoloso. Senza considerare i 4.050 cassaintegrati dell’ex Ilva, dei quali 3.500 nell’acciaieria di Taranto, se ne contano altre migliaia da nord a sud. La Beyers Caffè di Castel Maggiore (Bologna) ha siglato a metà luglio un’intesa per un anno di cassa integrazione e un piano di licenziamenti volontari che allontana la chiusura decisa dall’azienda belga lo scorso 15 marzo. Fino al 28 luglio 2025 toccherà invece fare i conti con la solidarietà ai 168 operai del laminatoio della Duferco Travi e Profilati di Giammoro (Messina). Stesso discorso, ma fino al 1° agosto del prossimo anno, per i 426 dipendenti di Magneti Marelli a Sulmona. Sorte comune anche ai 338 dipendenti avellinesi di Denso, multinazionale giapponese dell’automotive, fino a marzo 2025. Novecent0 operai di Leonardo saranno invece interessati dalla cig ordinaria a zero ore fino al 17 novembre nello stabilimento di Grottaglie, nel Tarantino.
Non solo nell’industria pesante
Lo stesso numero di impiegati di Benetton a Ponzano Veneto e Castrette di Villorba avrà 6 mesi di solidarietà, nonché un piano di esodi incentivati. Un anno di solidarietà – e poi 15 esuberi su 129 addetti – per i dipendenti Lineapiù Italia, azienda toscana del settore tessile. Dovranno affrontare tredici settimane di cassa integrazione, invece, i lavoratori della Tirso di Muggia, nel Triestino, altra azienda del settore tessile in difficoltà. A settembre, infine, toccherà convivere con la stessa situazione ai 69 operai di Dolomiti Ceramiche (ex Ideal Standard) del sito di Borgo Valbelluna.
Chiusure e licenziamenti in vista
Ad altri è andata peggio. È prossima alla chiusura Riello, storica azienda di caldaie nelle mani della multinazionale Carrier da quattro anni. I cancelli della fabbrica di Morbegno (Sondrio) non si apriranno più dal 30 agosto: a casa resteranno 51 operai e una decina di impiegati. In grave difficoltà anche la Breton, che produce macchine utensili in due stabilimenti del Trevigiano: a metà luglio ha aperto una procedura di licenziamento collettivo per circa un quarto dei suoi dipendenti (216 su 832). Dopo un’intesa con i sindacati, è scattata la cassa integrazione straordinaria per un anno. Non c’è invece stato nulla da fare per 68 dipendenti della Bosch di Castel San Giovanni (Piacenza) finiti a casa con un assegno da 24mila euro netti come incentivo all’esodo. Licenziamenti sono previsti anche alla Candy, in mano al colosso cinese degli elettrodomestici Haier, e alla Peg Perego. La prima taglierà – su base volontaria – 83 impiegati e 30 operai, circa il 10% della forza lavoro, nello stabilimento di Brugherio, vicino Monza. La fabbrica produttrice di passeggini e giochi per l’infanzia – come ricorda Collettiva – ha annunciato l’esubero del 40% dei dipendenti dopo anni di utilizzo degli ammortizzatori sociali. Licenziamenti in vista anche per 50 dipendenti della General Ricambi di Castiglione d’Adda e alla Aptuit di Verona (31 lavoratori su 902 dipendenti).
In difficoltà anche il tech
Non se la passano meglio anche alcuni impiegati nel settore tecnologico. A breve verrà presentata una seconda procedura di licenziamento collettivo da parte della Keywords Studios Italy, azienda del gaming con sedi a Roma e Cinisello Balsamo. Il primo tentativo dello scorso 27 giugno è stato abortito per un vizio di forma, ma la società ha ribadito che l’intento resta lo stesso. Il colosso Hudl ha invece annunciato, durante una call, 20 licenziamenti tra i 118 dipendenti della Wyscout di Chiavari. È in crisi? Macché, il reparto trasloca a Mumbai, in India.
Le grane del Mimit per i prossimi mesi
Di fronte a questo scenario, qualche notizia positiva è arrivata da Trieste e da Termini Imerese. Grazie a un accordo di programma che ha coinvolto anche la Regione Friuli-Venezia Giulia si è risolta la crisi di Wärtsila, con Msc di Gianluigi Aponte che avvierà una produzione di carri ferroviari tecnologici, 1.500 unità l’anno a regime dal 2027, assorbendo i 261 lavoratori in esubero. Dopo dodici anni sembra prossimo al rilancio anche lo stabilimento ex Fiat di Termini Imerese, investito dal crac di Blutec: il gruppo Pelligra prenderà in carico 350 lavoratori per creare un hub dedito alla ricerca tecnologica, altri 190 dipendenti accederanno invece allo scivolo pensionistico. Troppo poco per esultare. Non a caso, la scorsa settimana, è circolata la voce che il ministero guidato da Urso – oltre a esprimere grande soddisfazione per aver accorciato la lista delle aziende con tavoli di crisi aperti, dimenticando però il flop annunciato dell’operazione IIA-Seri Industrial, già smascherata dal Fatto Quotidiano – starebbe attenzionando una ventina di aziende che al momento non sono nel novero di quelle seguite dal Mimit ma comunque sono considerate fragili. Il peggio rischia ancora di dover venire.