Il biscottificio di Fornacette, comune di Calcinaia (provincia di Pisa), dà lavoro a quasi 174 addetti interni a tempo indeterminato, che salgono ad oltre 300 considerando gli interinali e chi opera tramite cooperativa , ma non tutti sanno che non esistono i più essenziali diritti. Che a quell’eccellenza, che nasce dalla professionalità di chi lavora e dal sacrificio delle loro famiglie, corrispondono condizioni di lavoro vergognose.
Sono imbattibili, unici. Basta provarne uno: assaggiandolo, sentirete il sapore dei biscotti che vostro zio, o vostra nonna, infornavano quando eravate piccoli. È la Biancoforno: un’eccellenza. Tutti lo sanno. Nonostante i tantissimi concorrenti sul territorio, il suo prodotto – dalle palmine agli occhi di bue – è dieci volte superiore a tutti gli altri. Grazie a ciò che a tante imprese manca: una qualità speciale, una ricerca, una ricetta particolare. Grazie al lavoro accurato di tanti e tante.
Il biscottificio di Fornacette, comune di Calcinaia (provincia di Pisa), dà lavoro a quasi 174 addetti interni a tempo indeterminato, che salgono ad oltre 300 considerando gli interinali e chi opera tramite cooperativa. Ma con un prodotto così si potrebbe impiegarne anche 500, senza subire una reale concorrenza. Eppure, tutti sanno che alla Biancoforno esistono quei buonissimi biscottini, ma non tutti sanno che non esistono i più essenziali diritti. Che a quell’eccellenza, che nasce dalla professionalità di chi lavora e dal sacrificio delle loro famiglie, corrispondono condizioni di lavoro vergognose.
Turni comunicati il pomeriggio prima per il giorno successivo, tramite un messaggio con l’orario di inizio turno ma non quello di fine. Fino al paradosso che, per la conclusione dell’orario, i lavoratori devono chiedere e ottenere un permesso. Spiego in maniera elementare: l’orario giornaliero di lavoro termina quando finisce la produzione. Quando il caporeparto ti batte sulla spalla e dice che puoi andare. Perciò può accadere che, dopo dieci ore di lavoro, per andare a prendere la figlia a scuola tu debba prendere un permesso, altrimenti non potrai uscire.
Nessuno spazio concesso ai lavoratori e alle lavoratrici per tenere le assemblee sindacali in azienda. La scusa? In una struttura moderna di 21mila metri quadrati non esisterebbero luoghi idonei in termini di sicurezza. Inspiegabilmente, il diritto di assemblea ha visto i lavoratori perdenti in due gradi di giudizio e ora si è arrivati alla Cassazione.
Ferie e permessi prelevati forzatamente per coprire i giorni in cui i lavoratori sono tenuti a casa contro la loro volontà. Spiego meglio, perché è talmente surreale che risulta difficile da processare: l’azienda gestisce in modo unilaterale permessi e ferie, e che cosa fa? Li usa per coprire ore in cui “non permette” di lavorare, senza chiedere l’autorizzazione agli interessati. L’esito assurdo è che i lavoratori obbligatoriamente tenuti a riposo si ritrovano spesso debitori nei confronti dell’azienda, come se avessero lavorato meno del dovuto. Con contatori in negativo anche di 700 ore.
Dopo una denuncia all’ispettorato del lavoro e l’obbligo imposto alla società di retribuire quelle ore, la dirigenza ha chiamato i lavoratori a uno a uno in ufficio, chiedendo di firmare un foglio in cui asserivano di restituire volontariamente permessi e ferie all’azienda.
Interinali che da 10, 15, addirittura 18 anni lavorano al fianco di chi ha contratti a tempo indeterminato, lavoratori assunti da cooperative che lo fanno con salari più bassi, producendo lo stesso biscotto.
Contratti interinali fuori norma, ridotti da 8 a 4 ore senza diminuire il carico. Ricatti, accuse e ostilità della dirigenza verso chi rivendica i propri diritti. Minacce, lavoratori tenuti per ora chiusi in una stanza, sottoposti a urla e offese. Controllo a distanza dei dipendenti, costretti a timbrare quando si spostano da una macchina all’altra. Corsi per i rappresentanti per la sicurezza a lungo non attivati (fino alla scorsa settimana). Visite mediche non a norma.
Investigatori privati messi a seguire il rappresentante sindacale, per dimostrare che non era depresso, lo stesso Rsa obbligato a sottoporsi all’esame delle urine sebbene non guidasse il muletto.
Una situazione insostenibile, che dura ormai da cinque anni. Anzi, forse da molto più tempo, risaputa nel territorio. I lavoratori raccontano commenti di questo tipo: “è da trent’anni che li sfruttano così”, “lavori alla Biancoforno? Come fai a resistere lì?”. Una situazione che, dopo un lungo silenzio, sta finalmente emergendo solo perché i lavoratori e le lavoratrici – prima pochi, poi sempre di più – hanno solidarizzato, si sono fatti coraggio e hanno alzato la testa.
Sono in stato di agitazione semplicemente per chiedere che l’azienda rispetti il contratto collettivo nazionale di categoria e le leggi. “Noi vogliamo l’orario di lavoro, sapere quando si entra e quando si esce. Se hai dei figli e non sai che turni farai fino a poco prima dell’ingresso in azienda, come puoi organizzarti?”. Lo domanda una lavoratrice durante un’assemblea-presidio davanti ai cancelli dello stabilimento.
Una mamma o un papà possono avere paura di chiedere di stare più a casa durante il periodo Covid? Una ragazza interinale, per un errore banale, può essere messa a casa fino alla scadenza del contratto? È normale che la Segretaria generale della Flai-Cgil di Pisa riceva una querela per diffamazione? Che sia chiamata dai carabinieri alle cinque e mezza del pomeriggio, subito prima del presidio previsto? Lo chiedo qui, con le loro parole: “È accettabile, nel 2024, trovare aziende blasonate che lucrano sul bisogno e accusano il sindacato di essere anacronistico, come se ci fosse qualcosa di moderno nello sfruttare i lavoratori come nell’Ottocento?”.
16/05/2024
da Il Fatto Quotidiano