03/11/2025
da Valigia blu
La chiamiamo guerra ma si è trasformata in una caccia all’uomo. E in qualche modo lo è sempre stata. Con l’aggiunta dei due obiettivi cardine: il potere e lo sfruttamento delle risorse.
Dopo oltre 500 giorni di assedio, oltre sedici mesi, El-Fasher, capitale del Nord Darfur, è caduta nelle mani dell’RFS, le Forze di Supporto Rapido guidate da Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, che in questo conflitto si oppongono alle Forze Armate Sudanesi (SAF), guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan.
In questa città si erano ammassate migliaia di persone in fuga da luoghi già occupati, già distrutti. E qui hanno trovato la morte. Nei mesi precedenti per fame e stenti. All’arrivo dei janjaweed (diavoli a cavallo) massacrati sul posto. O anche durante la fuga. Braccati, a volte torturati, umiliati e poi uccisi. Una caccia all’uomo. E per le donne la sorte è assai peggiore. Nel solo reparto maternità dell’ospedale locale sono state uccise 460 persone tra pazienti e accompagnatori, un numero imprecisato del personale medico e paramedico è stato rapito. A confermarlo è l’OMS.

Non ci sono giornalisti a documentare, le notizie arrivano soprattutto dalle organizzazioni umanitarie ancora presenti sul posto, ma sono inoltre gli stessi autori di tanta nefandezza a postare qua e là le loro atrocità. Urla di giubilo e armi bene in mostra.
Ai giornalisti esteri da tempo non vengono concesse autorizzazioni e così rimangono coraggiosi colleghi sudanesi a cercare di strappare dal silenzio e dall’indifferenza la tragedia che ormai da due anni e mezzo si è abbattuta sul paese. Giornalisti che hanno rinunciato alla loro firma (per questioni di sicurezza) pur di continuare a raccontare quanto accade. E poi ci sono le immagini satellitari che aiutano nelle ricostruzioni dei fatti. E che in questo caso raccontano di esecuzioni di massa, di improvvisate fosse comuni, di tanta crudeltà.
La caduta di El-Fasher ha provocato tra 1.500 e 2.000 vittime ma in questi casi, si sa, avere un numero preciso risulta impossibile. Certo è che questo conflitto ha provocato la più grave catastrofe umanitaria al mondo: si stimano già 40.000 morti, 12 milioni di sfollati , quasi 25 milioni di persone, la metà della popolazione, vive in uno stato di insicurezza alimentare, un bambino su tre è in grave stato di malnutrizione. E, quasi superfluo dirlo, i campi rifugiati sono solo un altro bersaglio delle milizie armate. Quello di Zamzam, il più grande dell’area, è stato preso d’assalto numerose volte negli ultimi mesi.
È un campo già tristemente noto, questo. Istituito nel 2004 quando la gente cercava un rifugio per sfuggire alla guerra in Darfur. Anzi, più che di guerra si è trattato di pulizia etnica. Anche in quel caso sono stati loro, i janjaweed, all’epoca agli ordini del presidente/dittatore Omar al-Bashir, deposto nel 2019. I morti furono 300.000. La scusa per attaccare fu quella di sedare una serie di ribellioni, la motivazione reale: liberare quei territori dalle popolazioni africane, i Fur, i Masalit, i Zaghawa. Popolazioni nere, non arabe, e per questo non gradite (usiamo un eufemismo) alla componente araba del Sudan, almeno a quella armata e che, seppure tempo fa, si è ripulita la faccia con un nuovo nome, le Forze di Supporto Rapido, sono gli stessi macellai che usano le stesse tecniche di morte e distruzione.
Quello che è accaduto e sta accadendo in Sudan e soprattutto in Darfur, è un genocidio. Lo sa bene la Corte Penale Internazionale che dai primi anni del Duemila lavora sulla “questione Sudan”. Fascicoli su fascicoli di accuse, prove, mandati di arresto (compreso quello che fu emesso nei confronti di Omar al-Bashir quando era in carica). Risultato? Finora tutti liberi. Tranne uno, che si è costituito. Ma chi alimenta l’arsenale di questi uomini che risultato così bene equipaggiati? Cina, Russia, Serbia, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Yemen sono i fornitori identificati da una serie di inchieste. E pensare che per il Darfur sarebbe in vigore un embargo. Evidentemente ineffettivo. Inoltre, fornendo armi al Sudan, gli Stati parte del Trattato sul commercio delle armi, come Cina e Serbia, violano i loro obblighi giuridici ai sensi degli articoli 6 e 7 del Trattato
Le accuse di fomentare le violenze (e il genocidio) attraverso il supporto di armi sono rivolte soprattutto agli EAU, più volte accusate di inviare armi alle RSF attraverso il Ciad. Questa vicinanza alle Forze di Supporto Rapido ha motivazioni “ideologiche” da un lato, economiche dall’altro. È da molti anni che la principale fonte di approvvigionamento dell’oro di Dubai è il Sudan. Un recente dossier dell’ISPI ha messo in luce il ruolo dell’oro nella guerra in Sudan. Sfruttamento, contrabbando e militarizzazione delle risorse aurifere non hanno fatto altro che intensificare il conflitto, coinvolgendo attori locali e internazionali. Ognuno con i suoi interessi, con le sue alleanze, con le sue carte da giocare. “Con lo scoppio della guerra civile del 2023 – si legge nell’analisi - l'oro è diventato più di una semplice risorsa economica: è diventato uno strumento fondamentale di potere e influenza”.
Ai margini di tutto questo la popolazione. Sono i civili le vittime di questo conflitto che oscilla tra questioni etniche ataviche e divisione delle risorse. E si nutre di odio e avidità. E mentre ancora si continua a fuggire o morire nell’area di El-Fasher, i massacri sono cominciati anche nel Nord del Kordofan a Bara. Si tratta di una cittadina molto vicina a El-Obeid, nota per le ricchezze petrolifere. Anche questa oggi rischia l’assedio.
E pensare che mentre gli scontri a El Fasher si intensificavano e i civili venivano massacrati o tentavano la fuga i rappresentanti del Quad (Stati Uniti, Arabia Saudita, Egitto e Emirati Arabi Uniti) si stavano incontrando a Washington per supervisionare i colloqui indiretti tra le Forze di Supporto Rapido e le Forze Armate Sudanesi.
I colloqui avrebbero dovuto concludersi con una tregua umanitaria di tre mesi. Sono falliti dopo il primo giorno. Secondo quanto riporta Ayin Network il generale al-Burhan ha dovuto dal canto suo lottare con forze interne all’esercito, in particolare gli ufficiali affiliati alle fazioni islamiste, che guardano con profondo sospetto alle iniziative di al-Burhan verso gli Stati Uniti e Israele da cui cerca evidentemente sostegno e appoggio. Questo ha portato qualche tempo fa alla decisione di liberarsi di alcuni di questi oppositori attraverso una serie di pensionamenti. Una purga in sordina che, da un lato, può piacere ai partner internazionali di Burhan, ma dall’altro potrebbe avere ripercussioni sul campo. Un episodio che lascia comprendere quanto la situazione sia delicata e complessa. E quanto sia difficile portare avanti dei negoziati.
Nel gioco delle parti si fanno strada, da una parte, le accuse del ministro degli Esteri, Hussein Al-Amin nei confronti della comunità internazionale, rea di non prendere reali provvedimenti contro le RSF (in realtà anche l’Unione Africana è praticamente assente); dall’altra, la posizione schizofrenica di “Hemedti” Dagalo che ha dichiarato di voler “unificare il Sudan” sotto una “vera democrazia” e che chiunque venga trovato colpevole di crimini contro i civili sarà ritenuto responsabile. Così come risulta un paradosso la composizione delle parti che lavorerebbero ai negoziati, come fa notare il ricercatore sudanese Osama Abuzaid, visti gli interessi contrastanti e i coinvolgimenti diretti degli attori che si sono seduti al tavolo delle trattative.
Ramtane Lamamra, inviato del Segretario generale delle Nazioni Unite per il Sudan ha più volte ribadito che quello del Sudan è un conflitto che non può, e non potrà, risolversi con le armi. E se la risposta internazionale, come ha ricordato Amnesty International, “rimane tristemente inadeguata” bisogna avere ben chiaro che ormai sono troppi i paesi coinvolti in questo “conflitto per procura”. Almeno dieci, e diversi di questi attori hanno preso chiaramente posizione. L'Arabia Saudita, ad esempio, sostiene l'esercito sudanese. Gli Emirati Arabi Uniti le Forze di Supporto Rapido. L'Egitto sostiene invece l'esercito come pure l’Eritrea mentre l'Etiopia sarebbe vicina al gruppo paramilitare. Mentre dal Ciad vengono contrabbandate le armi alle RSF. E sulla figura di Donald Trump, che sta cercando di costruirsi un'immagine di mediatore di pace, ci si domanda se il Sudan non starebbe meglio senza di lui. Il fatto che l’amministrazione Trump non abbia nominato un inviato speciale per sostituire Tom Perriello, per fare un esempio, è un’indicazione di come il Sudan non sembri essere nella lista delle priorità di Trump.
Troppi dunque sono gli intrecci geopolitici. Il conflitto in Sudan, secondo gli analisti, può essere risolto solo a livello di diplomazie regionali. Vale a dire, sarebbe indispensabile la mediazione dell’Unione Africana, che già lo aveva fatto nel 2019 dopo che l'esercito aveva rovesciato il presidente Omar al-Bashir, impedendo in quel momento la discesa del Paese in una dittatura militare. Ma la transizione al Governo civile non è avvenuta e queste sono le conseguenze. “Soluzioni africane ai problemi africani”, era questo lo spirito e il significato dell’UA. Sarebbe questo il suo ruolo guida. Non sta andando così. Dunque, come si può arrivare a una decisione imparziale se ognuno ha aspettative di controllo e di guadagno da quello che sta accadendo?
Con la presa di El-Fasher, l'ultima grande città del Darfur che non era ancora caduta nelle mani delle RFS, il paese è ora di fatto diviso tra la parte Est, controllata dalle SAF, e quella Ovest, controllata dalle RSF. E tra i massacri di persone anonime che rimarranno senza nome genera ancora più sconforto l’uccisione di Siham Hassan Hasballah, medico e attivista sudanese originaria del Darfur, nonché la più giovane eletta in Parlamento. Dopo i due mandati, tra il 2016 e il 2019, aveva continuato a servire la sua comunità gestendo mense che davano da mangiare alle famiglie affamate di El-Fasher. Anche lei vi ha trovato la morte.

