Disastro umanitario. Peggio di un terremoto. Peggio di un vulcano
Chi ha ancora qualcosa da mangiare o da bere rimane chiuso nelle tende di fortuna, lontano decine di chilometri dalla propria casa o da quel che ne rimane. Gli altri, invece, si accalcano intorno agli edifici delle Nazioni Unite, anche nelle giornate di pioggia, allungando le proprie braccia nella speranza di ricevere una bottiglia d’acqua potabile, del pane o qualsiasi mezzo di sostentamento. Mentre le bombe di Israele, dopo aver raso al suolo il nord della Striscia di Gaza, continuano a colpire anche le città del sud come Khan Younis e Rafah, c’è un’altra guerra che viene combattuta nell’enclave palestinese. È una guerra che non prevede l’uso di razzi, fucili, tunnel, ma allo stesso modo decide chi potrà continuare a vivere e chi invece morirà tra i civili palestinesi: la guerra per gli approvvigionamenti.
A sud ci sono i quasi 2 milioni di sfollati fuggiti dalla parte settentrionale della Striscia, dove i raid di Tel Aviv non hanno risparmiato abitazioni civili, ospedali e scuole. A loro Israele aveva detto che ripiegare su Rafah, città al confine con l’Egitto, voleva dire salvarsi dalla violenza dell’operazione militare contro Hamas. Adesso le bombe sono arrivate anche lì, ma a fare paura sono anche fame e sete. Come fanno sapere le Nazioni Unite, in quella città di 280mila abitanti adesso si trovano 1 milione di persone accampate in tende di fortuna, in attesa di aiuti umanitari che arrivano a singhiozzo: “All’interno dei nostri magazzini, le famiglie vivono in piccoli spazi separati da coperte appese a sottili strutture di legno – racconta il commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), Philippe Lazzarini, al ritorno dal suo terzo viaggio nella Striscia – All’aperto sono nati ovunque fragili rifugi. Rafah è diventata una comunità di tende. Non c’è più cibo da comprare, nemmeno per chi può pagarlo. Nei negozi gli scaffali sono vuoti“. Per poter bere non resta che sperare anche nella pioggia, raccolta in ciotole e scodelle posizionate fuori dalle tende.
L’unica speranza rimangono i pochi camion che passano dai due valichi di confine aperti: quello di Kerem Shalom, nell’estremo sud, al confine con Israele, e quello di Rafah, appunto, che invece separa la Striscia dall’Egitto. Orde di disperati affollano le aree di fronte alle strutture Onu che, però, hanno sempre meno acqua e cibo da distribuire. La vista di un camion di aiuti non provoca più semplice felicità, al massimo esaltazione: genera il caos. Le immagini che circolano sono impressionanti: centinaia di uomini, donne e bambini accalcati intorno ai tir con le mani al cielo nella speranza di impossessarsi di un pezzo di pane o di una bottiglietta d’acqua. Una massa informe che sembra sprofondare mentre cerca appiglio negli scarsi approvvigionamenti concessi al popolo di Gaza: “Stiamo ancora distribuendo tutto il cibo che riusciamo a portare, ma spesso si tratta di appena una bottiglia d’acqua e una scatoletta di tonno al giorno per famiglia, spesso composta da sei o sette persone. Cosa possono offrire circa 100 camion al giorno a 2,2 milioni di persone?”, si chiede Lazzarini. Il tutto è reso ancora più difficile dal collasso dell’impianto organizzativo che era stato messo in piedi dall’Onu, ormai a corto di personale, edifici e, anche loro, di forza. Perché tra le vittime dei bombardamenti indiscriminati ci sono anche 130 membri del personale Unrwa.
Ma non è questo il peggior girone di quell’inferno che è oggi Gaza. C’è una parte più piccola della popolazione, costituita comunque da centinaia di migliaia di persone, che dal Nord non se ne è mai andata, che ha deciso di non abbandonare la propria casa sotto le bombe, lasciandola come rifugio per soldati e cecchini israeliani o, peggio, come si vede in alcuni video circolati online, preda di razzie e devastazioni da parte delle truppe di Tel Aviv. Queste persone rappresentano il livello estremo del processo di disumanizzazione del popolo di Gaza. Adesso si trovano sull’altra sponda del fiume, quella sbagliata, sempre che ce ne sia una giusta. Loro non possono essere raggiunti dai pochi aiuti umanitari, sono abbandonati al loro destino.
14/12/2023
da Il Fatto Quotidiano