12/11/2025
da Avvenire
Le storie drammatiche e lo studio di Flai Cgil: quelle che lavorano irregolarmente nei campi hanno retribuzioni ancora più basse degli uomini e situazioni di continua ricattabilità
«Venite in Italia, c’è lavoro in una fabbrica di cipolle, 9 euro l’ora, 1.200 euro al mese, affitto a 100 euro». Così avevano promesso ad alcune donne bulgare. All’arrivo in Calabria, però, la realtà si è rivelata un incubo: non c’era alcuna fabbrica, nessuna paga oraria, nessun alloggio decente. Dormivano in una struttura turistica abbandonata, senza elettricità, tra pavimenti sporchi e coperte logore. Ogni giorno venivano caricate su furgoni e portate nei campi. In due mesi di lavoro estenuante avevano ricevuto appena 90 euro. Nessun contratto. Solo minacce. Quando una di loro ha chiesto di essere pagata il mediatore che l’aveva portata in Calabria le ha suggerito di “concedersi” sessualmente al caporale per ricevere il salario pattuito. Si è rifiutata. Ed è fuggita. Alcuni conoscenti hanno consigliato di contattare l’anti-tratta che l’ha allontanata immediatamente dalla zona. L’intervento tempestivo ha permesso di rassicurarla e convincerla a denunciare.
Una storia che riassume le condizioni delle donne che lavorano in agricoltura, italiane e immigrate, 300mila quelle con contratto, il doppio quelle “in nero”, tutte comunque sfruttate, pagate quasi il 20% in meno dei braccianti maschi e vittime di ricatti sessuali. Una condizione di “plurisfruttamento” denunciata in “(Dis)uguali”, il nuovo Quaderno dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. Un documento che si apre col ricordo di Paola Clemente, la bracciante pugliese morta di fatica, di sfruttamento e diritti negati nelle campagne di Andria il 13 luglio 2015. Una morte che finalmente spinse il Parlamento ad approvare la legge 199 del 2016 detta “anticaporalato”. Un’ottima legge che ha permesso di colpire molti sfruttatori ma ancora inapplicata per la prevenzione. E la condizione delle donne lo conferma.
Le retribuzioni delle braccianti sono inferiori a quelle già molto basse degli uomini, il cui pro capite annuo è di circa 7.200 euro mentre quello delle donne è attorno a 5.400 euro. In particolare «le lavoratrici migranti sono sfruttate, mal retribuite, ricattate ed esposte a gravi abusi perché donne, perché straniere, perché prive dei documenti di soggiorno o necessitate a rinnovarli, perché povere, perché vittime di tratta, perché sole o, al contrario, perché madri/mogli investite di responsabilità familiari», sottolinea Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil. Inoltre «se si ammalano, nessuno le cura. Se restano incinte, devono abortire segretamente, con gravi rischi per la salute».
Vivendo nelle baracche: in 4 ghetti su 10 tra quelli mappati è stata rilevata la presenza femminile, 1.868 donne su circa 11mila persone, il 17% che in alcuni insediamenti supera il 50%. Come e più dei maschi, sono costrette a lavorare tutti i giorni per oltre 10 ore, sempre in piedi o ricurve, a contatto con agenti chimici velenosi. Anche quando le contrattualizzano, i datori di lavoro dichiarano meno giornate di quelle svolte e, così, le pagano meno di quanto dovuto e, in parte, fuori busta.
Ne consegue che le lavoratrici restano escluse da molte misure di welfare, come il sussidio di disoccupazione agricola o la maternità, che sono riconosciute solo con un numero di giornate di lavoro regolare annue superiore a 51, requisito che spesso le donne non possono dimostrare. E così, quando perdono il lavoro o se restano incinte, si ritrovano senza tutele e esposte a ricattabilità.
Imprenditori agricoli e caporali si aspettano che in quanto donne siano più inclini alla sottomissione e che sopportino meglio le dure condizioni di lavoro. A loro volta, anche familiari e mariti possono ricorrere al loro impiego nei campi, non tanto nella forma di lavoro a pieno titolo, ma in funzione strumentale, utile per accrescere le economie familiari, accelerare la realizzazione del progetto migratorio e ridurre le difficoltà nel rinnovo dei permessi di soggiorno. E non sono rari i casi in cui datori di lavoro, caporali e braccianti considerano un diritto l’accesso al corpo delle lavoratrici migranti, equiparandole a merci a loro disposizione.

