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«Consultori, personale, soldi: cosa manca per tutelare i bambini»

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Attualità

22/11/2025

da Avvenire

di Viviana Daloiso

I drammi familiari dei piccoli uccisi dalle madri e l'ultimo caso dell'allontanamento dei minori che vivevano isolati nel bosco con i loro genitori hanno riaperto il tema della presa in carico dei ragazzi nelle situazioni limite. La presidente dell'Ordine degli assistenti sociali, Rosina: «No ai pregiudizi, il sistema è fragile anche perché non si investe su professionalità e risorse»

Situazioni «sottovalutate». O, al contrario, «prese troppo sul serio», «esagerate», «fuorviate». In comune le drammatiche storie di Giovanni, ucciso dalla sua mamma a Muggia per la strada, di Elia, soffocato nel sonno sempre dalla madre a Lecce, e dei tre bimbi del bosco in Abruzzo allontanati dai genitori hanno che qualcuno ha deciso per loro. Per difenderne i diritti, almeno sulla carta. Per il loro bene. Nel caso dei primi due, le cui devastanti uccisioni hanno a dire il vero molte altre similitudini, la decisione è stata che sì, nonostante i problemi e le fragilità ravvisate nelle famiglie in cui vivevano e nella fattispecie nelle condizioni di stabilità mentale delle madri, con queste ultime potevano continuare a trascorrere del tempo. Nel caso di Chieti, al contrario, che no, da mamma e papà dovevano essere allontanati. Così, nel tribunale spietato in cui s’è trasformato da diverso tempo ormai il dibattito pubblico nel nostro Paese, ecco il dito puntato contro psicologi, giudici minorili e contro gli assistenti sociali, colpevoli (a seconda) di aver lasciato un bambino a un genitore potenzialmente pericoloso oppure di averglielo portato via. «La mia prima reazione da assistente sociale davanti a fatti del genere, d’altronde, è sempre di smarrimento: domande come “chi poteva intervenire?” o “cosa non ha funzionato?” sono comprensibili». Quello che invece è incomprensibile per Barbara Rosina, che dell’Ordine degli assistenti sociali è anche la presidente, «è il processo alle intenzioni di singole professionalità, che non ci fa capire nulla di quel che è accaduto. E non ci aiuta a far sì che non si ripeta».

Partiamo dai numeri, intanto. Due infanticidi nello spazio di 10 giorni, cosa sta succedendo?

Eventi così drammatici, per fortuna, sono statisticamente rarissimi: i minori seguiti dai servizi sociali in Italia sono più di 400mila, tra il 5% e il 10% sono al centro di percorsi di affidamento o di collocazione in casa famiglia. Ciò ovviamente non toglie nulla alla gravità dei casi: anche la sola vita di un bimbo deve interrogarci su dove e come il sistema di tutela sia andato in cortocircuito. Uso la parola “sistema” appositamente: situazioni così complesse, fatte di fragilità personali, isolamento, assenza di sostegni, difficoltà ad accedere ai servizi, strumenti di prevenzione insufficienti, riguardano la sanità, la scuola, le forze di sicurezza, il territorio, le comunità (vicini di casa, famiglie) e la capacità di tutti questi attori di lavorare insieme, cogliendo i segnali di emergenza prima che sfocino in tragedia. Ecco perché, al netto delle responsabilità dei singoli che se ci sono e che è giusto che siano accertate, non risolviamo nulla con la ricerca del capro espiatorio. Dobbiamo fare riferimento alle responsabilità di un sistema, di una collettività, dobbiamo capire come arrivare e agire prima delle tragedie.

E cosa manca al sistema? Dove si inceppa la macchina della prevenzione?

Primo: mancano i consultori familiari, cioè i luoghi naturali della prevenzione, dove si sostiene la genitorialità e si lavorano le fragilità relazionali: in Italia ne abbiamo la metà di quello che servirebbero. Secondo: mancano gli assistenti sociali, 1.126 in meno rispetto al livello essenziale di uno a 5mila abitanti (ma se contiamo quelli che non hanno contratti stabili, il numero sale a quasi 2.700). Terzo: mancano ancora équipe multidisciplinari, composte oltre che di assistenti sociali, anche di psicologi, educatori, personale amministrativo. Il recente concorso nazionale, voluto dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, è stato una svolta: ha raccolto i fabbisogni di tutti gli ambiti territoriali e messo a bando più di 3.800 operatori, che ora i Comuni potranno assumere con contratti triennali finanziati dal Pon. Ma questo deve ancora avvenire, al momento dobbiamo stare con quello che c’è. Ancora: manca omogeneità sul territori, la spesa sociale pro capite, secondo il rapporto presentato al Cnel, è intorno ai 150 euro per abitante ma Bolzano ne spende oltre 462, alcune zone del Sud 15 o 20.

A chi spetta la decisione sui fondi da stanziare?

La spesa sociale territoriale è a carico dei Comuni. Poi ci sono fondi statali, come il Fondo nazionale per le politiche sociali, e programmi europei. È evidente che questo è un nodo: se investiamo 15 euro a cittadino che tipo di intervento ci aspettiamo di riuscire a garantire per aiutare una famiglia in difficoltà, anche coi migliori operatori del mondo?

A proposito di nodi ancora irrisolti: quali sono i punti più critici nella rete di protezione?

L’integrazione sociosanitaria è ancora molto fragile: il passaggio tra ospedale, territorio e servizi sociali spesso non funziona bene. Inoltre abbiamo un sistema che interviene troppo tardi, lo dicevo prima, solo sull’emergenza o su richiesta. La prevenzione richiede una presenza costante, relazioni, continuità, strumenti adeguati.

E i rapporti con la magistratura? L’opinione pubblica spesso confonde i ruoli.

I ruoli sono distinti e complementari. Gli assistenti sociali non allontanano bimbi senza un provvedimento dell’autorità giudiziaria minorile o del tribunale ordinario. Il nostro compito è valutare, accompagnare, prevenire. Quando emergono rischi, si segnala al Tribunale per i minorenni, che decide. L’unica eccezione senza decreto è l’affidamento consensuale, quando la famiglia firma un accordo. Le valutazioni complesse, lo ribadisco, coinvolgono molti attori: scuola, psicologi dell’età evolutiva, educatori, servizi sanitari specialistici. Mettere tutto insieme è difficile.

C’è però un sentimento ricorrente, da Bibbiano in poi: l’idea che «i servizi portino via i bambini». Perché?

In realtà è una narrazione che sento dal 1994, cioè da quando mi sono laureata, una narrazione che fino a qualche tempo fa anche alcuni media esaltavano. E che si ripropone ciclicamente, spesso in modo contraddittorio. Negli ultimi giorni qualcuno ha sostenuto che noi (!) dovevamo portar via due bambini poi uccisi, o – nel caso dei bimbi del bosco – di averli portati via. Sono giudizi che cavalcano l’emotività. Io posso solo confidare che, in ogni situazione, ci siano state e ci siano valutazioni tecniche corrette da parte di professionisti, non soltanto assistenti sociali, e che un giudice abbia ritenuto quelle decisioni fondate. Ma torno al punto centrale: se un assistente sociale è solo, senza psichiatra, senza educatore, senza rete scolastica adeguata, gestire casi complessi diventa quasi impossibile.

È stato detto anche che «nei campi rom non interviene nessuno». È così?

Assolutamente no. Gli assistenti sociali intervengono ovunque ci siano persone e famiglie in difficoltà. Nei campi rom il lavoro è più complesso: povertà estrema, precarietà abitativa, accesso difficile ai servizi, percorsi scolastici fragili. Ma noi andiamo lì per garantire diritti, non per controllare o punire. L’obiettivo è l’inclusione, non il giudizio. E soprattutto non il pregiudizio che guida qualcuno.

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