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Contratti e paghe, niente più alibi per il caso Italia

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12/11/2025

da Il manifesto

Antonio Loffredo

Salario minimo. La sentenza della Corte di giustizia chiude finalmente la lunga attesa sul destino della direttiva Ue sui salari minimi adeguati

La sentenza della Corte di giustizia chiude finalmente la lunga attesa sul destino della direttiva Ue sui salari minimi adeguati. Considerata la povertà degli obblighi che impone agli Stati, l’attesa era giustificata dal fatto che la direttiva affronta, anzi sfiora, uno dei nodi essenziali del conflitto nel lavoro: la questione salariale.

La Corte di giustizia aveva più volte rinviato la decisione, a conferma della difficoltà tecniche e politiche che essa nascondeva, lasciando con il fiato sospeso una platea di spettatori interessati che andava ben oltre gli addetti ai lavori. La decisione di confermare l’impianto della direttiva, pur eliminando due disposizioni che riguardavano i criteri e l’indicizzazione dei salari minimi quando questi ultimi vengono fissati per legge, ha dunque una valenza politica che va ben oltre quella giuridica.

L’approvazione della direttiva 2041 nel 2022 aveva polarizzato le opinioni sia rispetto all’opportunità politica sia riguardo alla legittimità della base giuridica. Proprio quest’ultimo aspetto aveva permesso il ricorso dei governi di Danimarca e Svezia – spalleggiati ahimè anche dai propri sindacati – visto che l’Ue non ha competenza normativa in materia di libertà sindacale, sciopero e retribuzione. E infatti, proprio per l’interferenza diretta dell’Ue nella determinazione delle retribuzioni, la Corte di giustizia ha annullato i due articoli citati.

Tuttavia, per quanto la decisione riduca il potenziale impatto della direttiva nei paesi dell’Ue che hanno un salario minimo individuato per legge (tutti eccezion fatta per Italia, Austria, Finlandia e i due ricorrenti), essa va salutata positivamente perché non solo si esprime in contrasto con le discutibili conclusioni dell’avvocato generale che aveva raccomandato l’annullamento intero della direttiva ma anche perché conferma la volontà dell’Ue di far sentire la propria (debole) voce nell’individuazione di salari minimi, anche in un momento storico in cui la voce sociale è spesso soffocata da quella bellica.

D’altra parte, se c’era tanto interesse a far scomparire dall’ordinamento una norma europea sui salari vuol dire che la direttiva non ha un’efficacia così ridotta. L’obiettivo di vedere annullata la norma, infatti, non era condiviso solo dai due paesi che hanno portato avanti il ricorso ma anche da quelli, come l’Italia, che hanno fatto da spettatori nella speranza che la Corte togliesse questo convitato di pietra dal dibattito politico e sindacale nazionale sui salari. Il tema, infatti, aveva finalmente acquisito una nuova centralità proprio grazie all’approvazione della direttiva, che si è inserita in un quadro economico caratterizzato da una stagnazione delle retribuzioni italiane da oltre trent’anni, certificata da tutte le ricerche internazionali.

A questo punto, la sostanziale conferma da parte della Corte di giustizia dell’impianto giuridico della direttiva non rende più giustificabile l’atteggiamento attendista da parte degli Stati membri e offre l’opportunità per mettere di nuovo sotto i riflettori la questione della sua attuazione anche nel nostro paese. Il che deve implicare una revisione del sistema di relazioni industriali, debilitato dalla (ormai) insostenibile leggerezza delle regole in materia di contrattazione collettiva. Del resto, se c’è un elemento certamente desumibile dalla direttiva, al netto delle sue ambiguità e punti oscuri, è proprio una promozione della contrattazione collettiva: solo i paesi nei quali si riscontra una copertura inferiore all’80% sono obbligati a un piano d’azione di sostegno alla contrattazione. In Italia, pur in assenza di dati ufficiali, ci sono stime di fonte Cnel (sulle quali alcuni studiosi nutrono seri dubbi) che ci attribuiscono una copertura pressoché totale, che depotenzierebbe gli effetti che la direttiva potrebbe avere nel nostro ordinamento. Una delle concrete conseguenze della sentenza della Corte sarà perciò quanto meno quella di obbligare il nostro paese a consegnare a Bruxelles dati ufficiali sulla copertura, che siano credibili e che spieghino come mai l’Italia rappresenti un’eccezione alla regola secondo cui i salari fissati contrattualmente e con un’estensione ampia darebbero vita a retribuzioni minime elevate rispetto ai salari medi.

Questi dati sembrano rafforzare la sensazione che in Italia sussista un problema di funzionamento del sistema contrattuale non meno urgente di quello salariale, e anzi a esso strettamente collegato. La direttiva potrebbe aiutare a dipanarlo, se fosse accompagnata da una volontà politica che sembra però del tutto assente. La direttiva, poi, può servire anche come strumento per contrastare quel drammatico ossimoro che è il lavoro povero, fenomeno che rappresenta la negazione assoluta dell’articolo 36 della Costituzione, secondo il quale la retribuzione dovrebbe garantire «un’esistenza libera e dignitosa» e non, a stento, una sopravvivenza. La questione è, perciò, non solo pratica ma anche di principio, riguarda cioè il valore economico che si vuole riconoscere al lavoro in un paese che nel primo articolo della sua Costituzione afferma proprio di fondarsi sul lavoro e non sul suo sfruttamento.

 

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