20/10/2025
da Left
Cecilia Iannaco E' psicologa, psicoterapeuta e vice presidente Netforpp
Cancellata l’educazione sesso affettiva fino alla terza media: un segnale politico e culturale coercitivo e regressivo. Negare la possibilità ai ragazzi di confrontarsi significa lasciare che siano la rete e la solitudine a rispondere alle loro domande
Con l’approvazione in Commissione cultura della Camera dell’emendamento al disegno di legge Valditara, il governo ha eliminato, fino alla fine della media, una delle iniziative più significative e delicate della scuola: quella pensata per l’educazione alla sessualità e all’affettività.
Per inciso, già il termine “educazione” merita una riflessione. “Educare” alla lettera vuol dire “tirar fuori”. La parola è bella e profonda, se intesa nel senso di permettere ai ragazzi di esprimere il loro pensiero, le loro passioni, o nel senso di interessarsi al loro sviluppo personale e sociale. Idealmente, però, non dovremmo aver bisogno di educare, di “tirar fuori” né l’affettività né la sessualità, che appartengono all’assoluta naturalità dell’essere umano. Ciò che gli adulti dovrebbero piuttosto scongiurare è che tali dimensioni del tutto spontanee vengano offese o vadano perdute. Ma, al di là delle parole, ciò che conta è rendere questi percorsi stabili, diffusi e accessibili a tutti. Non sono un lusso, ma una necessità civile.
La nuova norma stabilisce, invece, che nelle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, quindi fino a circa quattordici anni, siano vietate tutte le attività e i progetti che affrontano direttamente la sessualità o l’affettività, anche attraverso laboratori o incontri con esperti esterni. Solo nelle scuole superiori tali iniziative restano possibili, previo consenso scritto delle famiglie, che devono essere informate nel dettaglio su temi, materiali e persone coinvolte.
Togliere ai ragazzi la possibilità di confrontarsi con questi argomenti proprio durante la pubertà può avere effetti molto negativi sul loro sviluppo psichico: è in questo delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza che rischiano, infatti, di incontrare difficoltà nel costruire un senso di intimità e identità. Lavorare su affettività, rispetto e relazioni sane a scuola può essere, inoltre, decisivo per chi vive in contesti familiari difficili: negare questi spazi significa lasciare quei ragazzi senza punti di riferimento, privandoli della possibilità di percepire speranza, fiducia negli altri e di vivere rapporti validi alternativi alla famiglia. Sentirsi amati. Affidare poi ai genitori la decisione di dare o meno il consenso è paradossale: le famiglie più chiuse o problematiche, dove l’intervento scolastico sarebbe più necessario, spesso rifiutano; mentre i genitori attenti e disponibili, per i cui figli l’iniziativa della scuola non è essenziale, danno l’assenso. Si svuota così il compito fondamentale di una scuola equa, dove ogni ragazzo, al di là del contesto sociale di origine, dovrebbe poter accedere alle stesse opportunità di crescita.
Il messaggio implicito è chiaro: si diffida della scuola e si affida alla famiglia il potere di decidere cosa i ragazzi possono sentire, sapere e cercare nelle relazioni. Quello che dovrebbe essere un diritto alla comprensione e alla tutela diventa controllo, che alimenta il silenzio anziché il confronto e genera sospetto verso la conoscenza stessa.
Il ministro Valditara parla di “tutela delle famiglie” e di “diritto all’informazione”. In realtà, l’emendamento tradisce sfiducia nei confronti della scuola e dei giovani. Riduce l’autonomia educativa delle istituzioni, sostituendola con una logica paternalista e conservatrice. La sessualità diventa una minaccia, la curiosità un rischio, e la formazione un confine da non oltrepassare. Invece di proteggere, si mortifica: i ragazzi vengono privati della possibilità di comprendere, di ricevere risposte e di confrontarsi con la complessità e la ricchezza della propria interiorità.
Questa posizione non è una novità nella storia culturale italiana. Ogni germoglio di cambiamento viene spesso soffocato da una retorica che confonde pudore e paura. Da decenni l’Italia non ha un percorso stabile e sistematico per affrontare questi temi in modo laico, scientifico e umano: le iniziative nascono per lo più dal basso, da insegnanti, dirigenti scolastici, associazioni, psicologi, e finiscono spesso nell’indifferenza o, peggio, nell’ostilità politica. Solo in momenti straordinari, come durante la pandemia, si erano aperti spazi di ascolto e confronto sull’affettività, sull’identità e sulle relazioni. Ma il ritorno alla “normalità” ha visto il ritorno del silenzio o del vuoto di contenuti che pesa sulle giovani generazioni.
Mentre il mondo intorno evolve, l’Italia sembra guardare indietro. In Paesi come la Finlandia, i Paesi Bassi o la Svezia, sessualità e affettività sono considerate parti integranti della crescita: si parla di corpo e psiche, di emozioni e diversità, di consenso e rispetto. Si comprende che conoscere significa prevenire, che nominare le cose è il primo passo per non percepirle minacciose e poterle affrontare. In Italia, invece, la parola dei ragazzi è censurata, la conoscenza rinviata, la paura elevata a norma.
Sono i giovani stessi a chiedere strumenti per capire sé stessi e gli altri. Non cercano lezioni teoriche o morali, ma spazi aperti in cui parlare senza vergogna, senza giudizio, senza sentirsi sbagliati. I ragazzi vogliono parlare di sessualità ma non con i genitori. E a ragione. Un conto è rispondere con naturalezza alle curiosità dei bambini, un conto è affrontare con figli adolescenti aspetti di crescita intimi che, in quanto passi qualitativi di sviluppo dell’identità, richiedono una certa separatezza interiore dai genitori. Molti ragazzini si sentono soli e disorientati, cercano risposte su internet, nei social, nei gruppi online, ma spesso trovano solo altre domande in un circolo vizioso. Quando si rivolgono agli adulti, incontrano disagio, imbarazzo o reticenza: parlare di sessualità è ancora un tabù.
I giovani non vogliono più tacere. Vogliono confrontarsi e crescere in modo libero e consapevole. È probabile che sia proprio questa loro esigenza a suscitare timore: la libertà di interrogare il mondo, di mettere in discussione ruoli di genere e gerarchie consolidate, di esplorare nuove modalità di relazione diventano elementi da controllare. L’emendamento al disegno di legge Valditara non è solo un atto amministrativo, ma un messaggio culturale: si tenta di soffocare il nuovo imponendo il vecchio, riaffermando un modello di famiglia che controlla, giudica e regola e uno di scuola che addestra invece di favorire lo sviluppo dell’identità.
Dietro l’appello alla “tradizione” si nasconde la paura della libertà: la sessualità, intesa come apertura e relazione, viene percepita come una minaccia da confinare. Il diritto alla conoscenza si trasforma in sospetto e controllo. La ricerca scientifica è chiara: offrire strumenti concreti per affrontare la sessualità riduce gravidanze precoci, previene la violenza di genere, migliora la salute mentale e favorisce relazioni sane. Non si tratta di ideologia, ma di benessere collettivo. Eppure, l’Italia continua a ignorare l’evidenza, scegliendo oscurantismo e propaganda invece della ricerca.
Si condannano la violenza di genere, i femminicidi, le aggressioni tra adolescenti, e si chiudono, poi, le porte dei luoghi in cui quella violenza potrebbe essere prevenuta. Si interviene sul sintomo e si coltiva la causa. La sessualità non è un pericolo da evitare, ma un linguaggio da rendere sempre più fluido e personale: curiosità, attesa, consapevolezza di sé, apertura all’altro, libertà di scegliere e esprimersi. Trasformarla in tabù significa ostacolare lo sviluppo, ridurre la curiosità, mortificare l’immaginazione. La scuola, invece di essere laboratorio di umanità – per fortuna ci sono docenti che custodiscono il valore umano e sociale della loro professione – rischia di diventare un ufficio della conformità, un posto dove si insegna a non chiedere, a non sentire, a non pensare.
L’emendamento leghista è la fotografia di un Paese che teme i propri giovani, un Paese che di fronte alle nuove generazioni sceglie chiusura, controllo e censura. Ma la storia non si ferma: ragazzi e ragazze continueranno a parlare, a cercare, a scoprire, anche dove gli adulti si sono fermati. È da loro che può nascere un’Italia capace di comprendere che la crescita personale non è un recinto morale, ma un percorso di identità e libertà.