Netanyahu parlerà all’Onu oggi, ma non è questa la cosa più importante per lui. No, quello che doveva fare in America, con Biden, l’ha già fatto. Gli Usa gli hanno appena dato altri 8,7 miliardi di dollari in aiuti militari, “con un accordo che sottolinea la forte e duratura partnership strategica tra Israele e Stati Uniti e l’impegno ferreo per la sicurezza di Israele”.
Sembra una barzelletta ma è tragedia
In un momento in cui la Casa Bianca si erge a mediatrice per evitare un altro bagno di sangue in Libano, continua invece a rifornire di armi e munizioni chi attacca a tutto spiano. E i dadi sembrano proprio truccati, perché non ci sarà alcuna mediazione. Blinken ha bloccato la proposta franco-inglese, presentandone una più annacquata, difficilmente accettabile dagli sciiti libanesi. Netanyahu, appena arrivato a New York, ha già detto che “Israele continuerà a colpire Hezbollah con tutta la sua forza, fino a quando non saranno raggiunti tutti gli obiettivi”. Il che significa che i bombardamenti massicci continueranno e che (forse) si prepara anche un’invasione di terra.
Palestinesi, ‘esistiamo’
Certo, l’approccio schizoide della diplomazia americana destabilizza tutto il quadro delle relazioni internazionali. A cominciare dalle grandi istituzioni come le Nazioni Unite, oggi in profonda crisi. Per questo, l’intervento del Presidente dell’Autorità nazionale palestine se, Abu Mazen, non avrà effetti giuridici, ma suona come un angosciante atto di accusa morale. In primo luogo, contro gli Stati Uniti, la ‘patria della democrazia’, colpevole di avere bloccato tre volte, col veto, la risoluzione che condannava Israele a larga maggioranza. “Non ce ne andremo dalla Palestina – ha detto accorato Abu Mazen – saranno gli occupanti a doversene andare”.
La grande stampa Usa e israeliana
Nessuno, meglio dei giornalisti israeliani, può conoscere le verità più nascoste, che stanno animando gli attuali massacri in Medio Oriente, e l’impotenza americana in queste crisi. Haaretz, ci propone un editoriale che, scritto in questo momento, diventa una riflessione illuminata per comprendere le ragioni di un disastro politico e diplomatico lungo un anno. Il pezzo riprende e commenta “La guerra che non voleva finire”, di Franklin Foer, un articolo che offre su ‘The Atlantic”’ lo spaccato della strategia fallimentare adottata dalla Casa Bianca, incapace di imporre all’alleato israeliano una risposta militare più equilibrata che non fosse considerata, dal resto del pianeta, come una truce rappresaglia vendicativa.
‘La guerra che non voleva finire’
Foer parla di “anatomia di un fallimento”. E analizza valutandoli “gli sforzi vertiginosi del governo statunitense per porre fine alla guerra a Gaza, liberare gli ostaggi e mediare una nuova pace nella regione”. Una premessa a chiarire l’ennesimo ‘bluff’ della diplomazia internazionale, che non essendo stata in grado di riportare la pace a Gaza in 11 mesi, prova a farlo in Libano in un paio di giorni. Più per dimostrare di esistere che per la convinzione in un risultato positivo. E le ultime notizie, parlano di un ulteriore clamoroso fallimento. Un progetto di ‘cessate il fuoco’ per il Libano, dove la guerra di Israele è già ampiamente cominciata, anche se per ora limitata ai devastanti bombardamenti aerei.
21 giorni di tregua franco inglese
La proposta per un ‘cessate il fuoco’ di 21 giorni, sostenuta da molti altri Paesi, non sembra gradita al governo di Tel Aviv. Il Ministro degli Esteri, Israel Katz: “non se ne parla nemmeno”. Il responsabile della Sicurezza nazionale, l’ormai famigerato Itamar Ben-Gvir, peggio. Ha detto che se Netanyahu si azzarda a mettere qualsiasi firma per interrompere i combattimenti in Libano, lui farà cadere immediatamente il governo. Stessa minaccia dall’altro “’messianico’, il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, per il quale “bisogna finire il lavoro”. Che il clima in Israele sia ulteriormente peggiorato e che ora soffino venti di burrasca, è testimoniato anche dalle dichiarazioni degli alti ufficiali dello Stato maggiore.
Anche l’esercito preme
Hertzl Halevi, il capo, ha detto che “l’esercito aspetta da anni questa opportunità per attaccare Hezbollah e lo farà in ogni parte del Libano”. Anche il Ministro della Difesa Gallant, dimenticate le polemiche, ha il dito sul grilletto. Quasi tutto il resto del governo è per la guerra. Amikai Chikli (Affari della diaspora), ha chiesto subito un’invasione di terra. Orit Strock (Insediamenti): “Non esiste alcun mandato morale per il cessate il fuoco”. Miki Zohar (Cultura e sport): bisogna continuare a combattere fino alla vittoria finale. Per Amichai Eliyahu (Patrimonio) la proposta è “pura ipocrisia”. Anche il capo del Consiglio dell’Alta Galilea bersaglio, Moshe Davidowitz, paradossalmente, è contro il cessate il fuoco. E, paradosso finale, , anche le formazioni di sinistra e centro-sinistra, con Yair Golan e Yair Lapid, ammettono, al massimo, una tregua di qualche giorno. Non più di una settimana.
Quello che a occidente non capiamo
Ma quello che a Washington e buona parte dell’Europa i governi non capiscono (o fanno finta di non capire) è che, sul tavolo della crisi, traballano le tessere di un mosaico molto complesso che riguarda anche la politica interna israeliana. Così l’Assemblea generale dell’Onu diventa il megafono di posizioni ‘di comodo’ , a volte propagandistiche, alle quali spesso, non fanno seguito politiche coerenti con gli impegni presi. La mancanza di incisività delle Risoluzioni, che proceduralmente devono poi essere deliberate dal Consiglio di sicurezza (dove vige il diritto di veto), in pratica disarma l’Assemblea e mette in crisi l’istituzione. Cosa che ha spinto il Segretario generale Antonio Gutérres, a elaborare un rilancio istituzionale attraverso il cosiddetto “Piano per il futuro”.
Segnali importanti oltre il potere
Tuttavia, le prese di posizione dal podio assembleare conservano ancora un significato importante. Sono segnali chiari, su come si muove il mondo al di là dei blocchi geopolitici precostituiti o delle sfere di influenza. Nel caso di Gaza le indicazioni finora emerse dalle varie votazioni sono state molto indicative. Con gli Stati Uniti e Israele spesso ridotti all’angolo e con il Sud del mondo praticamente compatto, contro un Occidente cronicamente “astenuto” e in palese disagio.
27/09/2024
da Remocontro