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Via da Gaza, deportazioni mascherate da evacuazioni

Via da Gaza, deportazioni mascherate da evacuazioni

18/11/2025

da Il Manifesto

Widad Tamimi

Terra rimossa. Dopo il charter giunto in Sudafrica esplode il caso dei viaggi orchestrati dalla ong fantasma Al-Majd Europe e il sospetto che siano funzionali a un piano politico di "svuotamento" della Striscia. Trasferimenti non tracciati, modalità operative opache, partenze "secretate" dall'aeroporto Ramon, scali anche in Europa e destinazioni finali spesso ignote

Mentre in Italia ci affanniamo a salvarne una manciata, a portare i gazawi fuori da un inferno che non lascia alternative -perché nessuno crede più che ci sia futuro, anche se si cominciasse domani si ricostruire ci vorrebbero anni – emergono, accanto ai canali umanitari legittimi, zone grigie sempre più ampie. Tra questi, il nome che ricorre con maggiore insistenza è quello di Al-Majd Europe, una fondazione registrata in Germania che negli ultimi mesi è diventata protagonista di un’operazione di evacuazione tanto vasta quanto controversa. Ne ha scritto domenica su queste pagine Michele Giorgio.

La presentazione ufficiale dell’organizzazione è impeccabile: sito curato, linguaggio compassionevole, narrativa solidale. Si descrive come una ong tedesca fondata nel 2010, attiva nella protezione dei civili in zone di guerra. Eppure, quando giornalisti africani e arabi hanno iniziato a verificarne l’esistenza reale, l’immagine ha iniziato a incrinarsi. L’indirizzo indicato come sede europea non risulta ospitare alcun ufficio operativo, ho provato io stessa – l’email istituzionale non funziona, ho persino tentato di effettuare una donazione e il link non funziona veramente – e le fotografie dei presunti dirigenti pubblicate sul sito sono state identificate come immagini generate da intelligenza artificiale. Nessuna traccia di progetti precedenti verificabili, nessun documento pubblico sulle attività svolte negli anni.

Nei media arabi le domande si moltiplicano. Testate come Al-Quds al-ArabiFelesteen ed Erem News descrivono la fondazione come un soggetto opaco, difficile da tracciare, con richieste di dati personali estremamente sensibili rivolte ai civili di Gaza: certificati familiari completi, recapiti di parenti all’estero, documenti finanziari e, secondo alcune testimonianze raccolte a Rafah, persino informazioni sui contatti avuti con ong europee e con autorità palestinesi. Un uomo di Khan Yunis ha raccontato: «Ci hanno chiesto tutto, persino se avevamo parenti in Turchia o in Malaysia. Sembrava più un interrogatorio che un’offerta di aiuto». Analisti citati dalle stesse testate vedono in questa raccolta di informazioni e nella mancanza di trasparenza un possibile coinvolgimento in operazioni politiche più ampie, coerenti con una storia in cui organizzazioni pseudo-umanitarie sono state utilizzate per favorire trasferimenti di popolazione.

Una ragazza con una borsa di studio in Italia, temendo di non riuscire a raggiungere l’Europa dopo molti ritardi, ha pensato di partire con loro. Ma dopo i primi contatti mi ha confessato di essersi spaventata: lo stile era diverso da quello delle associazioni e delle università che la sostengono in Italia, qualcosa nel tono e nelle richieste l’ha allarmata.

Inizialmente le evacuazioni venivano presentate come gratuite. Poi la situazione è cambiata. Testimonianze raccolte da Al JazeeraAssociated Press e media sudafricani parlano di cifre tra 1.500 e 5.000 dollari a persona. Una giovane madre di Deir al-Balah, evacuata con due figli, ha raccontato: «Ci hanno detto che senza pagare 3.500 dollari non saremmo mai usciti. Ho venduto l’oro di mia madre e chiesto un prestito a mio fratello a Dubai». Un altro passeggero, arrivato in Sudafrica, ha detto di essere stato sollecitato a pagare «in contanti, subito, mentre avvenivano ancora operazioni di fuoco nei cieli di Gaza e spostarsi era estremamente rischioso». Una modalità che difficilmente rientra nelle pratiche di un’organizzazione benefica, dove la sicurezza viene prima di tutto.

La ricostruzione delle rotte conferma elementi ancora più oscuri. Tutte le testimonianze convergono su un percorso che parte da Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, prosegue sotto controllo israeliano fino all’aeroporto Ramon, a sud di Eilat, per poi spostarsi verso l’Africa. Nessun passaggio dalla Giordania, dove le evacuazioni sono rigidamente monitorate. I voli decollano da un aeroporto controllato dall’esercito israeliano, senza documentazione chiara, per poi atterrare a Nairobi, in Kenya, e infine proseguire verso il Sudafrica. Molti passeggeri hanno dichiarato di non essere stati informati della destinazione: l’hanno scoperta una volta scesi dal velivolo.

Tra le rivelazioni emerse nelle ultime settimane, alcune testimonianze indicano anche tratte verso l’Asia sud-orientale. Un uomo intervistato da Al Jazeera, poi citato da media iraniani, ha affermato che «un primo gruppo ha raggiunto l’Indonesia a giugno», sempre attraverso Al-Majd Europe, passando da Ramon con scalo in uno Stato europeo. Una fonte palestinese ha raccontato di una rotta con primo volo verso Budapest, su un charter rumeno, e da lì destinazioni finali come Malaysia e Indonesia. Un attivista sudafricano, dopo aver visionato alcune carte d’imbarco, ha sostenuto che tra le destinazioni indicate comparivano anche India, Malaysia e Indonesia. Nulla di tutto ciò, però, risulta finora confermato ufficialmente da Giacarta, che ha un programma indipendente di accoglienza umanitaria.

Il caso è esploso all’arrivo in Sudafrica, quando un aereo charter proveniente dal Kenya è atterrato all’aeroporto O.R. Tambo di Johannesburg con 153 cittadini palestinesi a bordo. Le autorità sudafricane hanno subito rilevato la mancanza di documenti validi, l’assenza di timbri d’uscita, certificazioni incomplete e procedure anomale. I passeggeri sono stati trattenuti sulla pista per ore e il governo ha emesso un comunicato ufficiale in cui spiegava la necessità di un’indagine. Il presidente Cyril Ramaphosa ha parlato pubblicamente di un arrivo «misterioso», «non coordinato», facilitato da attori esterni, affermando che quelle persone erano state «spinte fuori» da Gaza in circostanze poco chiare. Una parte dei passeggeri è stata accolta per ragioni umanitarie, mentre altri sono ripartiti verso Canada, Australia e Malaysia.

La domanda centrale emersa tanto nei media arabi quanto in quelli africani e internazionali è semplice e inquietante: chi beneficia realmente di questa operazione? Perché costruire un sistema di evacuazioni parallelo, costoso, privo di monitoraggio internazionale, con voli che passano per aeroporti militari e arrivano in Paesi ignari dell’operazione? Perché spostare i civili lontano dalla Striscia senza un coordinamento ufficiale con Onu, Unrwa o altri attori riconosciuti?

Molti analisti temono che queste pratiche possano inserirsi in una strategia più ampia di svuotamento demografico della Striscia, una dinamica di cui si discute da decenni. Non ci sono prove definitive, ma la somma di indizi, testimonianze e irregolarità alimenta i sospetti.

Resta il nodo legale. I corridoi umanitari sono necessari e devono essere garantiti in ogni conflitto, ma non possono diventare strumenti di ingegneria demografica o scorciatoie per risolvere con l’esodo ciò che non si vuole affrontare con la diplomazia. La priorità non può ridursi a salvare poche centinaia di persone mentre la questione nazionale palestinese viene relegata sullo sfondo. Senza un obiettivo politico chiaro – lo Stato, i diritti, la protezione internazionale – ogni evacuazione rischia di trasformarsi in una rinuncia collettiva.

Salvare vite è sacrosanto, ma se questo processo avviene senza garanzie e senza trasparenza, si rischia di lasciare i più vulnerabili ancora più soli. La solidarietà non può essere ingenua: deve essere lucida, informata, vigile. Deve evitare di essere strumentalizzata e continuare a vedere la Palestina non come un problema da evacuare, ma come un popolo da riconoscere.

Nuovi elementi stanno emergendo anche grazie al racconto di un piccolo gruppo di famiglie che ha lasciato Gaza nei mesi precedenti e di cui si era persa traccia. Una donna originaria di Rafah, oggi rifugiata a Surabaya, ha riferito a mediatori locali che il suo viaggio era stato organizzato «da un gruppo tedesco» e che il trasferimento era iniziato proprio da Kerem Shalom. Secondo la sua testimonianza, raccolta da attivisti indonesiani, il gruppo era stato imbarcato su un volo europeo che avrebbe dovuto portarli in Malaysia, ma una parte dei passeggeri ha continuato verso l’Indonesia grazie a un visto turistico ottenuto prima della guerra. La donna ha raccontato di aver trascorso due giorni senza sapere in quale Paese fossero diretti, di non aver ricevuto documentazione chiara e di aver appreso della destinazione finale soltanto all’arrivo.

Anche un giovane di Jabalia, oggi a Medan, ha parlato di una rete di intermediari collegati ad Al-Majd Europe. Ha riferito di essere stato contattato tramite un numero palestinese non registrato e invitato a presentarsi in un punto di raccolta vicino a Khan Yunis. «Ci dissero che saremmo andati in Egitto. Poi ci portarono nel Negev, poi a Ramon. Solo a Budapest capimmo che alcuni di noi sarebbero stati mandati in Indonesia», ha raccontato. Ha aggiunto che al momento dell’imbarco sul primo volo gli è stato assicurato che «tutto era coordinato con organizzazioni internazionali», ma una volta arrivato in Asia ha scoperto che nessuno lo aspettava e che le autorità locali non avevano ricevuto alcuna notifica.

Le autorità indonesiane non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali su arrivi coordinati da Al-Majd Europe, ma ambienti diplomatici a Jakarta ammettono la possibilità che piccoli gruppi siano entrati nel Paese attraverso rotte irregolari, in un periodo in cui l’Indonesia aveva espresso in più occasioni sostegno alla popolazione di Gaza. Un funzionario coinvolto nel programma umanitario del governo indonesiano ha spiegato che, negli stessi mesi, Giacarta stava organizzando corridoi dedicati ai feriti e agli orfani, ma che «alcuni arrivi non risultavano parte dei registri ufficiali». Ha confermato che in almeno due casi famiglie palestinesi si sono presentate spontaneamente agli uffici consolari senza alcun documento di viaggio verificabile.

Secondo una fonte diplomatica araba con base a Kuala Lumpur, parte dei passeggeri diretti originariamente in Malaysia
sarebbe stata trasferita in Indonesia attraverso canali privati. Questo spiegherebbe la confusione sulle destinazioni finali e la difficoltà, per i media, di ricostruire un quadro unitario degli spostamenti.

Tutto ciò rafforza il sospetto che Al-Majd Europe abbia costruito una rete di evacuazioni parallele che non solo aggira i corridoi umanitari ufficiali, ma produce una dispersione geografica dei palestinesi, rendendo impossibile un monitoraggio coordinato e aprendo spazi a potenziali abusi. Restano ancora da chiarire il ruolo degli intermediari europei coinvolti negli scali, la natura dei contratti stipulati con le compagnie charter e il motivo per cui parte delle destinazioni non viene mai comunicata ai passeggeri.

Mentre emergono nuovi elementi, una cosa appare evidente: queste evacuazioni non sono semplici operazioni umanitarie, né seguono la logica dei corridoi protetti. Sono il risultato di un sistema che non ha preteso, secondo la legge umanitaria, di aprire corridoi leciti e pienamente sorvegliati anche per questo conflitto, sotto controllo internazionale. Ogni uscita, anche quella dei cittadini che da Gaza raggiungono l’Italia, viene presentata dal nostro governo come un’eccezione, una concessione, un atto di gentilezza invece che come l’esercizio di un diritto sacrosanto: sopravvivere a un massacro. In questo modo abbiamo permesso movimenti non tracciati, privi di coordinamento istituzionale, nei quali i civili diventano passeggeri di un meccanismo che sfugge al controllo pubblico. Un sistema che, dietro la promessa della salvezza, rischia di generare una nuova forma di dislocazione invisibile, una diaspora non dichiarata che si muove lungo rotte fuori da ogni garanzia internazionale.

Negli ultimi giorni si moltiplicano anche le domande sul possibile finanziamento delle operazioni di Al-Majd Europe. Una ricostruzione preliminare di media arabi e africani suggerisce che l’associazione abbia avuto accesso a fondi difficili da tracciare: donazioni private provenienti da Paesi del Golfo, trasferimenti attraverso piattaforme di pagamento non regolamentate e, secondo una fonte palestinese con conoscenza diretta del settore delle ong, possibili contributi da intermediari europei che operano in maniera semi-clandestina nel campo della logistica umanitaria. Un ex coordinatore di soccorsi a Gaza ha descritto la rete come «una costellazione di micro-finanziatori: piccole raccolte fondi, canali paralleli, fondazioni di facciata che muovono somme relativamente modeste ma sufficienti a far decollare un charter». Una seconda fonte, basata a Istanbul, ha aggiunto che alcuni finanziatori sarebbero «convinti di sostenere operazioni di salvataggio», senza essere a conoscenza della totale assenza di tracciabilità.

Contemporaneamente, prende forma il quadro dei reclutatori e intermediari. Numerosi gazawi hanno riportato di essere stati contattati tramite numeri sconosciuti, spesso registrati all’estero o associati a Sim temporanee. In più di un caso, le chiamate provenivano da prefissi europei, tra cui Germania e Paesi Bassi, ma anche da numeri palestinesi non riconducibili a operatori ufficiali. Un uomo di Rafah ha spiegato che l’intermediario «parlava un arabo non locale» e sosteneva di lavorare per una ong europea autorizzata a operare nella Striscia. Secondo altre testimonianze, gli intermediari cambiavano numero dopo ogni fase del viaggio, rendendo impossibile qualsiasi forma di verifica. Alcuni passeggeri hanno riferito di essere stati aggiunti a gruppi WhatsApp scomparsi nel giro di poche ore dopo l’imbarco sul primo autobus diretto verso Kerem Shalom. Una giovane di Gaza City ha raccontato di aver ricevuto istruzioni «solo tramite messaggi vocali», nei quali le veniva detto di presentarsi a un punto di raccolta «entro due ore» senza altre spiegazioni.

Dubbi simili emergono nella gestione dei voli europei utilizzati come scali. Le testimonianze parlano di un primo volo charter, spesso operato da compagnie dell’Est Europa, con destinazioni come Budapest o Bucarest. Da lì i passeggeri sono stati redistribuiti verso l’Africa o l’Asia. Alcuni documenti di viaggio visionati da attivisti sudafricani mostrano carte d’imbarco emesse da Fly Lili e da altre piccole compagnie charter, con tratte che non compaiono nei registri dei voli commerciali. Un passeggero diretto poi in Indonesia ha raccontato di essere rimasto per sette ore nell’aeroporto di Budapest «in una sala isolata», senza che nessuno spiegasse quale sarebbe stato il volo successivo. Un altro, finito in Sudafrica, ha detto di aver scoperto in quel momento che il suo biglietto riportava una destinazione completamente diversa da quella promessa. Una fonte diplomatica europea ha ammesso che «sono avvenuti movimenti non registrati nel traffico commerciale standard», senza però specificare la natura o la provenienza dei passeggeri.

Nuovi dettagli stanno emergendo anche sulle procedure di imbarco all’aeroporto Ramon e sul ruolo degli operatori aeroportuali israeliani. Numerose testimonianze descrivono un sistema rigidamente controllato, ma strutturato per non lasciare tracce documentali. Secondo i passeggeri evacuati, l’arrivo all’aeroporto non avveniva attraverso i terminal destinati ai voli internazionali, bensì tramite ingressi secondari solitamente utilizzati per il personale o per voli militari. In più di un racconto si parla di autobus scortati da veicoli dell’esercito, con i passeggeri registrati non tramite passaporti, ma attraverso liste nominali consegnate direttamente agli addetti aeroportuali.

Un tecnico di manutenzione che lavora da anni nell’hub di Eilat ha riferito, sotto anonimato, che nelle settimane in cui si svolgevano queste evacuazioni sono stati utilizzati spazi di parcheggio remoti, lontani dai gate visibili ai passeggeri commerciali. Secondo la sua testimonianza, i charter atterravano e ripartivano in fasce orarie non compatibili con il traffico civile ordinario, segno che le operazioni erano state inserite deliberatamente nelle finestre tecniche dell’aeroporto, quando non è necessario registrare il transito nei sistemi pubblici. Ha anche riferito che alcuni movimenti non comparivano nei tabelloni interni, pratica abituale nelle operazioni militari o coperte da riservatezza.

Una giovane madre evacuata verso il Sudafrica ha raccontato che al momento dell’imbarco non è stato loro richiesto alcun documento, e che la verifica dei nomi veniva fatta confrontando liste stampate e annotate a mano. «Non ci permisero di parlare con nessuno. Ci dissero solo di restare in fila, seguire le istruzioni e di non scattare fotografie o video».

Una fonte con conoscenza delle pratiche aeroportuali israeliane ha confermato che Ramon è spesso utilizzato per operazioni che richiedono un alto grado di controllo e un basso livello di visibilità, grazie alla sua posizione remota nel deserto e alla presenza ridotta di voli commerciali. La fonte ha aggiunto che il personale può essere autorizzato a operare senza lasciare registrazioni digitali, circostanza tipica delle operazioni di sicurezza. Questo spiegherebbe perché alcuni charter associati ad Al-Majd Europe non compaiono nelle banche dati internazionali dei voli o risultano registrati con numeri identificativi parziali.

Un ulteriore fronte di indagine riguarda gli interessi geopolitici israeliani dietro l’utilizzo dell’aeroporto Ramon come snodo per flussi non registrati di civili in uscita da Gaza. Secondo più analisti della regione, l’impiego di Ramon non è soltanto una scelta logistica, ma uno strumento politico: permette a Israele di controllare ogni fase del trasferimento, di evitare la supervisione internazionale che avverrebbe in un corridoio mediato da organismi come Onu o Unrwa e di spostare i gazawi lontano da punti sensibili come i valichi egiziani o giordani, dove il peso diplomatico dei Paesi arabi tende a imporre condizioni più rigide.

Una fonte mediorientale vicina agli ambienti diplomatici di Amman sostiene che l’uso di Ramon risponde a una strategia più ampia: impedire che le evacuazioni avvengano attraverso la Giordania, dove ogni passaggio verrebbe immediatamente registrato e sottoposto a controlli multilaterali. «Se passassero da Amman, la comunità internazionale vedrebbe numeri, liste, destinazioni. Avrebbero trasparenza. Ramon è pensato per garantire l’opacità», ha spiegato la fonte. Secondo la stessa ricostruzione, la Giordania avrebbe più volte espresso preoccupazione per trasferimenti di palestinesi che avvengono senza coordinamento, considerandoli potenzialmente parte di una pressione demografica che rischia di coinvolgere l’intera regione.

Purtroppo, però, per esperienza diretta so quanti ostacoli la Giordania abbia posto – e continui a porre – alle evacuazioni da Gaza. I diplomatici italiani raccontano di blocchi riguardanti donne con bambini, studenti, persone malate. La motivazione ufficiale è evitare un esodo massiccio dalla Striscia, per non contribuire allo svuotamento del territorio. Ma il risultato concreto è l’opposto: invece di garantire vie d’uscita sicure e monitorate, si spingono le persone verso canali alternativi, che sfuggono completamente ai controlli e alle tutele della comunità internazionale.

Un funzionario europeo, coinvolto in una missione di osservazione nei territori occupati, ha aggiunto che da anni in Israele si discute della possibilità di «alleggerire» la densità di popolazione a Gaza favorendo la migrazione verso Paesi terzi attraverso programmi non ufficiali. «Non c’è un documento che lo ammetta apertamente, ma nei think tank vicini alle istituzioni se ne parla da oltre un decennio», ha affermato. Secondo questa fonte, l’impiego di Ramon in un’operazione non tracciabile coincide con quel tipo di visione: un processo che non appare come deportazione forzata, ma che spinge persone disperate ad andarsene senza che rimanga traccia del volume degli spostamenti.

Un diplomatico arabo con base al Cairo, informato da colleghi del Golfo, ha spiegato che alcuni Paesi mediorientali sono stati contattati informalmente per accogliere «piccoli numeri» di gazawi in fuga, ma la maggior parte avrebbe rifiutato proprio per evitare di legittimare un possibile disegno di svuotamento della Striscia. «Hanno capito che se avessero aperto le porte, il flusso sarebbe diventato un fiume. E quel fiume non si sarebbe più fermato», ha detto il diplomatico.

Anche all’interno di Israele, le evacuazioni attraverso Ramon hanno suscitato reazioni contrastanti tra apparati di sicurezza, governo e società civile. Alcune testate indipendenti hanno sollevato interrogativi sulla natura delle operazioni. Un ex funzionario del Ministero della Sicurezza pubblica, intervistato in anonimato, ha dichiarato che «Ramon è stato utilizzato come un laboratorio operativo, una zona grigia dove sperimentare forme di gestione della popolazione fuori dai protocolli ufficiali». Secondo la fonte, l’elemento critico non era l’evacuazione in sé, bensì il fatto che fosse condotta «in partnership con attori non governativi stranieri di cui non si conosce nemmeno la struttura interna».

Organizzazioni per i diritti umani hanno espresso preoccupazione per la totale assenza di monitoraggio sui passeggeri, sottolineando che un’evacuazione trasparente avrebbe richiesto la presenza di osservatori internazionali. Gruppi nazionalisti, invece, hanno accolto la riduzione della presenza palestinese come un effetto «inevitabile e favorevole» del conflitto.

Nel silenzio dei corridoi oscuri che portano da Kerem Shalom a Ramon, negli scali nascosti d’Europa, nelle rotte sconosciute che conducono in Africa e in Asia, si consuma una trasformazione profonda del tessuto umano palestinese. Una trasformazione che solleva la domanda più difficile: quanta parte di questo movimento è davvero scelta, e quanta parte è il risultato di una pressione invisibile che spinge i gazawi lontano dalla loro terra, in un viaggio senza ritorno che nessuno ha il coraggio di chiamare con il suo nome.

Responsabili di tutto questo sono anche i nostri Paesi, che non pretendono l’invio immediato di osservatori internazionali a Gaza, né spingono con decisione per il riconoscimento dello Stato palestinese, né garantiscono evacuazioni attraverso corridoi umanitari monitorati da organismi indipendenti. Continuiamo a offrire ai palestinesi compromessi inaccettabili e, così facendo, ci rendiamo corresponsabili dell’ennesima tragedia inflitta a un popolo. Ci illudiamo di assolverci mettendo in scena soluzioni di facciata, salvando e accogliendo pochi individui – beneficiari di un diritto che non dovrebbe mai essere eccezionale: il diritto a vivere.

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