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Da Parigi a Roma, cosa insegna il caso Sarkozy: in Francia si va in carcere, in Italia si va allo scontro

Da Parigi a Roma, cosa insegna il caso Sarkozy: in Francia si va in carcere, in Italia si va allo scontro

Politica 

22/10/2025

da La Notizia

Giulio Cavalli

l carcere di Sarkozy conferma che lo Stato di diritto altrove resiste. In Italia la condanna diventa un campo di battaglia politico

La foto di Nicolas Sarkozy che varca i cancelli del carcere de La Santé a Parigi per scontare la condanna a cinque anni (di cui uno già esecutivo) segna un passaggio simbolico nella memoria europea sul rapporto tra potere e giustizia. L’ex presidente continua a definire il verdetto una «vendetta» e promette ricorsi, ma intanto entra in cella, in isolamento e senza privilegi. Il suo messaggio su X – «Dormirò in carcere, ma a testa alta» – incarna un doppio movimento: contestazione verbale del giudizio e sottomissione fisica alla legge. In Francia il corpo obbedisce, anche quando la voce protesta. Il potere può urlare all’ingiustizia, ma si consegna prima di tentare di riscrivere le regole.

Il test francese: si contesta, ma si esegue

La Quinta Repubblica ha già conosciuto presidenti e premier condannati: Jacques Chirac nel 2011 accettò due anni con sospensione per fondi illeciti; François Fillon ha visto la sua carriera finire con la condanna nel “Penelopegate”, pena sospesa ma politicamente definitiva; l’ex ministro Jérôme Cahuzac scontò la pena con braccialetto elettronico dopo le dimissioni. Marine Le Pen è oggi sotto appello dopo essere stata giudicata colpevole di uso illecito di fondi europei: parla di «dittatura giudiziaria», ma non può bloccare l’iter.

La stampa francese è divisa, ma Le Monde parla di «atto repubblicano»: la giustizia non è un optional negoziabile. Anche quando il linguaggio politico tenta la delegittimazione, l’architettura istituzionale tiene. L’esecuzione della pena non è vissuta come una scelta, ma come un dovere che rafforza il principio di eguaglianza di fronte alla legge.

Italia: quando il processo diventa assedio

In Italia lo schema è diverso e si cristallizza nel berlusconismo. Dopo la condanna definitiva nel processo Mediaset, Silvio Berlusconi parlò di «colpo di Stato giudiziario». Da allora la politica ha interiorizzato lo scontro con la giustizia come forma di identità. Matteo Salvini definì i magistrati «un cancro da estirpare», accusandoli di «fare campagna elettorale». Matteo Renzi ha parlato di «mostro giudiziario» creato per distruggerlo. Il processo diventa narrazione di persecuzione, il ricorso uno strumento mediatico.

Le pene accessorie mostrano il divario: in Francia l’ineleggibilità è immediata e automatica; in Italia la legge Severino è terreno di battaglia politica e tentativi di deroga. Gli avvisi di garanzia diventano talk show, i rinvii a giudizio strumenti di propaganda, le sentenze il pretesto per invocare riforme “epocali” che ridisegnino i rapporti tra poteri dello Stato. Così la condanna non conclude il ciclo giudiziario: lo apre, trasformandolo in un plebiscito sul consenso del leader. In Francia Sarkozy entra in cella e da lì alimenta la narrazione del martirio; in Italia la condanna diventa l’occasione per rovesciare il paradigma della responsabilità.

L’Europa che si consegna (anche urlando) alla giustizia

In Germania il presidente Christian Wulff si dimise nel 2012 solo all’apertura di un’indagine su un prestito di favore. Fu assolto nel 2014, ma la carriera era finita: la dignità istituzionale prevalse sul verdetto penale. In Spagna il “caso Gürtel” portò alla caduta del governo Rajoy dopo la condanna di esponenti del Partido Popular; l’ex direttore FMI Rodrigo Rato è andato in carcere. In Croazia l’ex premier Ivo Sanader ha scontato la reclusione per corruzione. In Romania il leader Liviu Dragnea è entrato in carcere dopo la definitiva, tra piazze che non chiedevano di fermare la giustizia, ma di applicarla.

In tutti questi casi la protesta politica esiste, ma resta dentro il recinto dello Stato di diritto, senza mettere in discussione l’obbligo dell’esecuzione. L’idea che «nessuno è al di sopra della legge» non è uno slogan, ma un meccanismo operativo che si attiva indipendentemente dal rumore esterno.

La distanza italiana si misura nel momento in cui il leader condannato deve scegliere se consegnarsi o tentare di trascinare con sé l’ordinamento. Sarkozy varca i cancelli di La Santé. L’Italia continua a chiedersi se varcarli significhi tradire il consenso, trasformando ogni processo in una guerra di logoramento contro la giustizia. In Francia la pena chiude il ciclo. In Italia lo apre. E finché la politica racconterà la legalità come un confine mobile da piegare alla convenienza, l’assedio alle istituzioni resterà l’unico linguaggio che sopravvive alla condanna.

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