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Dazi e riarmo, l’azzardo di Trump per continuare il secolo americano

Dazi e riarmo, l’azzardo di Trump per continuare il secolo americano

Opinioni. Il disegno di diminuire il deficit commerciale e il mega-debito degli Usa si intreccia con la guerra, sia che resti come minaccia, sia che venga praticata, anche per procura

Da tempo eravamo convinti che la guerra non fosse più la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma la sua sostituzione. Lo ha ribadito con brutale chiarezza David Petraus in una recente intervista. Eppure l’irruenta entrata in scena di Trump qualche novità la porta. La guerra commerciale iniziata dal tycoon, seppure con la tecnica dello stop and go, che già in quanto tale colpisce i poveri e i deboli, i lavoratori e i fragili ceti medi di ogni parte del mondo, si intreccia in modo ormai indistricabile con la guerra guerreggiata. Lo fa chiamando in aiuto le perverse astuzie della finanza e delle tariffe doganali.

È questo il modo con cui Trump cerca di prolungare la sopravvivenza del secolo americano nel mondo cercando di gettare nel caos ogni tipo di regola e di istituzione con le quali gli stessi Usa avevano dominato la globalizzazione capitalistica della fine dello scorso secolo. Una scommessa fatale, che corre sul filo dell’avvicinarsi del rischio di una nuova guerra mondiale nucleare.

Ma Trump non è un pazzo, anche se assume atteggiamenti istrioneschi, perché questo serve per deridere e mortificare i suoi nemici come gli amici non così fedeli come li vorrebbe; anche se contraddice spesso quanto ha appena detto, perché l’imprevedibilità fa parte della sua potenza; anche se nel perseguire il suo piano produce effetti collaterali apparentemente disastrosi, ma dei quali non si occupa perché li ha già messi nel conto.

Nelle frasi finali della Teoria Generale, John Maynard Keynes afferma che presto o tardi chi occupa il potere si aggrapperà alle idee, per quanto strampalate, di qualche scribacchino per delineare la sua politica economica. Parole profetiche.

Era già successo con Reagan che dette retta a quel genio di Arthur Laffer che gli spiegò che lo Stato ci guadagna abbattendo le tasse ai ricchi, con la famosa curva a campana disegnata su un tovagliolo di carta; sta succedendo ora con Trump che cerca di attuare il piano di Stephen Miran scritto in un lungo paper nel novembre dell’anno scorso e intanto fa approvare al Congresso una nuova gigantesca ingiustizia fiscale. Miran sostiene che la radice degli squilibri economici deriva dalla sopravvalutazione del dollaro (in realtà dalla sovraccumulazione dei capitali rispetto alla possibilità di cavarne i profitti desiderati). Poiché non è possibile come nel passato – si pensi al Plaza Accord del 1985 – giungere a una svalutazione per via di accordo tra le massime potenze, allora non c’era la Cina a guastare la festa, bisogna ricorrere al metodo del bastone e della carota (testuale), dove il bastone sono l’aumento delle tariffe doganali e la carota è l’ombrello della difesa e il rischio di perderla.

Si può facilmente obiettare che l’indebolimento del dollaro (già in atto, visto che il suo valore è sceso da inizio d’anno almeno del 13%) diminuisce anche la credibilità degli Usa come pivot del sistema finanzcapitalista mondiale. Ma a questo si risponde con l’alimentazione del sistema di guerra sul piano globale.

Il disegno di diminuire il deficit commerciale e l’enorme debito degli Usa si intreccia quindi con la guerra, sia che resti al livello della minaccia, sia che venga effettivamente praticata, anche per procura. O accettate i dazi, ci dice Trump, o aumentate le spese militari e i nuovi armamenti all’Ucraina li fornite di tasca vostra. Se poi, per insipienza del suo interlocutore, il tycoon ottiene entrambe le cose cumulativamente, grasso che cola. Lo ha capito Orsini, presidente della Confindustria, che avverte che al 10% dei dazi (moltiplicati ora almeno per tre) va aggiunto il costo della modificazione del cambio.

La polemica interna al governo, se rispondere come Ue o trattare come singolo paese, appare meschina oltre che falsa, visti i vincoli dei Trattati. Perfino Kenneth Rogoff ci dice che la Ue ha ceduto fin troppo, sulla difesa, sull’esclusione delle imprese Usa dalla global minimum tax, perfino su quel 10% dichiarato da subito accettabile. È il momento per sottrarsi a un atlantismo spinto agli eccessi e guardare altrove. A Est come a Sud.

Persino da ambienti mainstream, anche se solo culturali, proviene un simile suggerimento. Il modo con cui la Cina ha affrontato senza battere ciglio la minaccia di dazi fino al 200%, aumentando addirittura il proprio export nell’anno in corso, ci insegna che la sottomissione non paga. Uguale segnale proviene dall’orgogliosa risposta del Brasile alle minacce Usa e dal summit di luglio dei paesi Brics+ che, passo dopo passo, stanno costruendo un’alternativa nel nome del multipolarismo.

Il fatto che Trump abbia un piano non significa che sia imbattibile. Tutt’altro, visto che si basa su un’analisi sbagliata delle cause della crisi del capitalismo americano. Ma per sconfiggerlo servirebbe un’altra Europa che ora non c’è. Intanto però si potrebbe e si dovrebbe agire per costruire una sinistra sul piano europeo e nei singoli paesi, capace di unire ciò che lo è già nella realtà, ovvero la lotta per la pace e per la trasformazione degli assetti sociali e politici nel mondo

16/07/2025

da Il Manifesto

Alfonso Gianni

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