Dieci anni sono volati come il colpo di un cannone. Il Donbass forse rappresenta meglio il peccato originale di un’Europa che non ha voluto ascoltare e capire che quel manipolo di uomini e donne disorganizzati con in braccio il kalashnikov, erano più di una pedina usata dal governo di Mosca per destabilizzare l’Ucraina dopo il referendum non riconosciuto della Crimea.
Dall’11 maggio del 2014 è una brace che arde, che verrà sepolta da un protocollo, quello di Minsk, che si limita a circoscrivere l’importanza della questione, togliendola dalle agende politiche ed editoriali. Ma la brace continuava a poter far riaccendere un incendio. E nel febbraio del 2022 chiunque avesse lavorato come reporter tra le strade di Donetsk e i villaggi vicinissimi a Mariupol non era sorpreso da cosa è accaduto, e neanche dalla direzione che i russi hanno subito intrapreso: Kharkiv e Mariupol, oltre la capitale Kiev.
Il tempo è stato così rapido da quando il palazzo dell’amministrazione di Donetsk veniva preso d’assalto, le scrivanie ribaltate per rinforzare posti di blocco urbani e copertoni di automobili ammassati per non consentire facile ingresso alle forze ucraine governative. L’aeroporto di Donetsk, gioiellino che rappresentava il potere economico della città sarà raso al suolo da mesi di bombardamenti e combattimenti furiosi: da una parte gli uomini del battaglione “Somali” guidati dal comandante Givi, dall’altra i soldati di Kiev, soprannominati “cyborg” per il loro coraggio e resistenza. Saranno i primi soldati celebrati come simbolo dell’aggressione di Mosca sull’Ucraina, con film e documentari concepiti per celebrare quello che hanno fatto: morire sotto i colpi feroci di obici dopo mesi di lotta tra le macerie.
Ma il conflitto armato nel Donbass non è riconosciuto come una guerra civile, l’allora governo di Poroshenko lo ritiene più che altro un coacervo di terroristi sostenuti da Mosca. Solo con lo scoppio del conflitto del 2022, gli ucraini grideranno ad ogni reporter: “C’era una guerra civile nel Donbass e nessuno diceva niente!”. Peccato che per anni non si poteva considerarla tale e anzi, giornalisti come Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi per il loro documentario sulla Rai Fratello contro Fratello si sono ritrovati attaccati proprio dalla comunità ucraina in Italia perché non era tollerabile sostenere che in quello che era “il cuore dell’Unione Sovietica” ci fosse una guerra vera e propria, tra ucraini, sostenuti da due distinte parti: l’occidente a trazione americana e l’oriente filo russo.
Anni di tregua forzata che è stata costantemente violata da entrambe le parti: le prove erano evidenti da Pisky fino ad Avdiivka, ma nessuno voleva per davvero trovare una soluzione lasciando a Putin la scusante del popolo minacciato dal governo di Kiev.
I testimoni di quello che è successo nel 2014 sono sempre meno, Donetsk per anni ha vissuto anni violenti tra attentati bomba e faide interne, quasi tutti i leader sono morti per circostanze misteriose, mai sul campo di battaglia, ultimo il volontario straniero forse più famoso da quelle parti: Russell Bentley, detto “Texas”, che è stato ritrovato ucciso nella zona periferica di Donetsk dopo giorni che era stata denunciata la sua scomparsa. Un’altra uccisione dovuta a questioni interne che non hanno nulla a che vedere con la guerra ma dimostra quanto ancora sia una vita tremenda quella che c’è aldilà dei territori sotto ancora il controllo dell’Ucraina. Texas andò a combattere per i separatisti filo-russi perché odiava i nazisti, ma dove ha trovato casa ha anche trovato la morte per mano probabilmente amica.
11/05/2024
da Il Fatto Quotidiano