Politica estera
22/10/2025
da Remocontro
Dopo le celebrazioni con orchestre e clacque, cosa? Domenica sganciate 153 tonnellate di bombe. Cento palestinesi uccisi in dieci giorni e pochi aiuti. E l’esercito, invece di ritirarsi, si allarga: Israele piazza barriere di cemento lungo la linea gialla. E si prende il 53% del territorio della Striscia, denuncia Chiara Cruciati sul manifesto
La montatura della Pace che non è neppure Tregua
Centocinquantatré tonnellate di bombe israeliane sganciate domenica su Gaza. A vantarlo alla Knesset il primo ministro Netanyahu in risposta ai mugugni dell’ultradestra che non si capacita della possibilità che l’offensiva possa finire davvero. E dai dieci giorni di ‘cessate il fuoco’, Israele ha ucciso quasi cento palestinesi e ne ha feriti quasi 250. Oltre decine di detenzioni illegali. Solo domenica i caccia israeliani hanno colpito la Striscia almeno cento volte, da nord a sud. Accade dopo la marea unanime degli applausi la distrazione assoluta della politica e dei media del mondo occidentale. Disattenti e Israele distratta: il veicolo su cui i due soldati rimasti uccisi viaggiavano e che hanno giustificato gli attacchi aerei, è saltato su un ordigno israeliano.
La squadra politica al comando
Il ministro israeliano Itamar Ben Gvir ha dato un ultimatum al premier Benjamin Netanyahu, dichiarando che se la pena di morte per i terroristi non passerà al plenum della Knesset entro le prossime tre settimane, il suo partito Otzma Yehudit (Potere ebraico) non si considererà più obbligato a votare con la coalizione che sostiene l’attuale governo. La dichiarazione è avvenuta nel corso di un’intervista a Channel 12. Il ministro ha aggiunto che con il rilascio degli ultimi ostaggi vivi da Gaza «non ci sono più scuse per non portare avanti la legge», che a suo dire costituirà un deterrente al terrorismo. Ben Gvir ha ribadito, inoltre, la sua richiesta al Primo Ministro di continuare la guerra e di ‘smantellare Hamas’. «Se il governo non smantella Hamas, smantellerò il governo», ha aggiunto. Corte penale internazionale ancora distratta.
Interpretazioni israeliane degli accordi
Scopriamo intanto che la «linea gialla» tracciata dall’accordo di Sharm el Sheikh consegna a Israele il 53% del territorio, e che chiunque la oltrepassi viene ammazzato dall’esercito occupante. Non solo: da domenica le ruspe hanno iniziato la costruzione dell’ennesimo muro, barriere di cemento alte 3,5 metri e verniciate di giallo lungo la yellow line. «La demarcazione dovrebbe essere temporanea, ma il cemento dice altro. Dice altro anche il fatto che le truppe sono rientrate in zone da cui si erano ritirate il 12 ottobre: quartieri a Khan Younis e Rafah (città totalmente cancellate dalle mappe, non c’è più quasi nulla in piedi) a sud e quello di al-Sudaniya, a nord. Intanto – mentre dai valichi entra ancora troppo poco, pochi camion e pochi beni, tra cui i macchinari per scavare tra le macerie – il bilancio di due anni e due settimane di genocidio continua a crescere, inesorabile».
- 68.200 uccisi accertati, in attesa di recuperare migliaia, forse decine di migliaia, di cadaveri dalle macerie della Striscia. Alcuni non verranno mai individuati né riceveranno la dignità di una sepoltura: polverizzati dalle esplosioni.
Il dopo-Hamas oltre la linea gialla
L’ascesa delle milizie che collaborano con il governo israeliano, racconta Eliana Riva. Mentre la «seconda fase» del piano Trump si fa sfuggente, Israele intende sfruttare al meglio la metà di Gaza che mantiene sotto occupazione. E dietro la cosiddetta «linea gialla» scopri un laboratorio di alleanze e traffici. La priorità di Tel Aviv è evitare che Hamas continui ad aver il controllo e che la ricostruzione rimetta in piedi strutture pubbliche che consentano un po’ alla volta di riprendere la vita da dove si è interrotta il 7 ottobre 2023. Il movimento palestinese ha riconquistato a tempo record l’amministrazione e la gestione della sicurezza dopo la firma del cessate il fuoco, e il governo Netanyahu sa bene che Hamas rimarrà al potere fino a quando non sarà possibile sostituirla con altre forze al suo soldo.
Ma i ‘clan locali’ non bastano
Scopriamo che i ‘collaborazionisti’ talvolta sono giunti a rapimenti e azioni armate per conto di Tel Aviv. Ma non sono abbastanza forti da sostituirsi al movimento che controlla la Striscia. Ma l’esercito che mantiene l’occupazione di zone «di sicurezza», ha aperto nuove strade. I leader delle milizie che si sono ritirati insieme ai militari nelle «zone cuscinetto» sono stati riposizionati, con i loro eserciti di mercenari in formazione, lungo tutta la Striscia. La loro presenza serve soprattutto al controllo del territorio. E secondo i il quotidiano Israel Hayom, la visita dell’inviato Usa, Witkoff e del vicepresidente americano Vance ha lo scopo di discutere una nuova ipotesi per il dopo-Hamas.
Due diverse ricostruzioni
Si tratterebbe di organizzare meglio la divisione della Striscia in due zone di controllo. La ricostruzione prioritariamente nell’area occupata da Israele: una sorta di «modello pilota» che prevede alloggi mobili, reti fognarie, elettricità, scuole, cliniche. Una riedizione delle cosiddette «zone umanitarie» più volte evocate da Tel Aviv ma in questo caso costruite senza la popolazione, la quale vi si trasferirebbe volontariamente, in attesa che la ricostruzione avvenga nel resto della Striscia. Per ora tocca ai ‘musulmani amici’ come a Rafah, dove l’esercito costruisce «una città modello», che dovrebbe rappresentare la Gaza del futuro, controllata dalle filiali palestinesi di Israele. Sono già state costruite una scuola e una moschea, e organizzati depositi di cibo. Per gli altri solo il ‘cessate il fuoco’ del forse ad imperioso di Israele.
L’umanitarismo di guerra
Le «zone umanitarie» dietro la «linea gialla» non potrebbero essere amministrate da Tel Aviv, che lascerebbe il compito alle milizie che essa stessa controlla. E a Rafha, quando arriveranno le prime case mobili, le milizie di Abu Shabab potranno trasferirvi le famiglie e parte della popolazione sfollata. Anche gli altri gruppi armati da Israele stanno chiedendo fondi per realizzare ciò che le cosiddette «Forze popolari» del predone Abu Shabab gestiscono a sud. Israele ha fatto nascere una rete di milizie che agiscono come un unico corpo, seguendo la sua agenda. Sono formate per la maggior parte da trafficanti ed ex galeotti. Le truppe di Hussam al-Astal (detto Abu Safin) hanno proclamato il controllo su una «zona umanitaria» a sud di Khan Younis, a pochi metri dalle postazioni militari israeliane.
Interlocutori di Usa-Israele a Gaza
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Un video verificato da Sky news mostra i miliziani, carichi di carburante, acqua e beni, muoversi da una postazione dell’esercito di Tel Aviv fino a una scuola occupata, divenuta il proprio quartier generale. La milizia di Rami Helles, considerata una delle più pericolose, opera invece nell’area di Shuja’iyya, intorno a Gaza City ed è stata coinvolta in rapimenti per conto dell’esercito israeliano. C’è poi il gruppo guidato da Lyad Nasr, di cui non si conosce la precisa ubicazione. Tutte le milizie rivendicano un ruolo di controllo del territorio e tentano di accreditarsi come interlocutori autorevoli a cui affidare la gestione della Striscia. Ma se per qualsiasi ragione il piano israeliano dovesse fallire, utilizzerebbero i soldi e le armi per tornare ai propri traffici o più probabilmente, per una sanguinosa battaglia di egemonia criminale che porterebbe Gaza alla guerra civile.