Libere Romi, Emily e Doron, gioia in piazza a Tel Aviv. Verso il rilascio di novanta palestinesi. A Gaza in vigore il cessate il fuoco, arrivati i primi camion di aiuti umanitari. La gente festeggia in strada. Dopo la tregua ci sarà un futuro per la Palestina? Eric Salerno, da ebreo italiano, pone il dubbio chiave: esisterà nell’Israele attuale un possibile futuro dignitoso e pacifico per la popolazione palestinese?
L’orrore inammissibile tra le parti
Vorrei lasciare ad altri i bilanci. Quello dei morti, dei feriti, delle distruzioni in Israele, e soprattutto a Gaza resa quasi inabitabile per i bombardamenti israeliani; nella Cisgiordania occupata dove da anni non si erano viste azioni militari contro i palestinesi come nell’ultimo anno e mezzo. Devo, però, parlare dell’odio, dei giovani, in Medio Oriente e altrove. Delle nuove generazioni. Sono loro il domani. Il futuro. La prima fase del cessate il fuoco è stato approvato. Prima dai rappresentanti di Hamas, poi dal governo israeliano, il governo più a destra che lo stato nato socialista abbia mai avuto. Se andrà bene è prevista una seconda fase ancora tutta da definire. E se andrà bene anche quella non definita seconda fase, si potrà parlare di futuro.
Incerto futuro guardando al passato
Anni fa Itzhak Rabin, generale famoso, fu assassinato a Tel Aviv da un giovane ebreo israeliano che la pensava come alcuni dei ministri che minacciano di lasciare la coalizione di governo, se non si va avanti con la distruzione del popolo palestinese. O almeno del suo sogno, diritto, di avere uno stato sulla terra della Palestina. Nelle varie volte che incontrai il militare diventato più statista che politico ripeteva: «La guerra si fa per fare la pace». Parlerebbe anche con Arafat? gli chiesi. «Certo». E non molti anni dopo lo vidi sul prato della Casa bianca stringere la mano al ‘terrorista’. Terrorista come per gli inglesi erano considerati terroristi altri due israeliani prima di guidare Israele. Begin e Shamir.
Gli errori di Arafat
Arafat non seppe gestire fin in fondo la lotta del suo popolo. C’è qualcuno capace di farlo ora? E ancora presto per parlare di futuro, di stato palestinese o compromessi nelle condizioni in cui si trovano sia gli arabi che gli israeliani. «Netanyahu non è il solo da biasimare per i crimini di guerra di Gaza – lo è anche qualsiasi israeliano che è rimasto in silenzio», scriveva ieri Haaretz, il battagliero quotidiano di Tel Aviv. Sono poche le voci in Israele disposte anche a prendere in considerazione l’idea di convivere con o anche solo accanto al popolo palestinese. E nel mondo arabo, come dall’inizio di questa storia di terre contese, poche le voci che si sono levate a favore dei loro fratelli della Palestina.
La pace si fa con il nemico
La Germania di oggi, quella che solo pochi anni fa si rese responsabile dell’Olocausto degli ebrei, è, dopo gli Stati Uniti, il più fedele sostenitore di Israele. Alla vigilia della fase uno dell’accordo firmato a Doha, tanti ancora sono gli ostacoli sulla via della pace e del riconoscimento dei diritti palestinesi da parte di Israele. Un fattore, però, potrebbe essere visto in positivo: il cambiamento generazionale.
Una vecchia generazione consumata dagli odi
La questione palestinese non era mai interessata molto ai vecchi leader arabi. Arafat era considerato da quasi tutti un fastidioso ostacolo, un elemento di instabilità per i regimi appena usciti dal colonialismo e incapaci di affrontare il domani.
Oggi il paese che punta a pilotare il mondo arabo verso il futuro, l’Arabia saudita, è guidato da Mohammad bin Salman Al Sa’ud, nato nel 1985. Un giovane. Toccherà a lui e ai petrodollari sauditi e degli altri paesi del golfo finanziare il futuro di Gaza. Ma non sarà facile all’erede al trono, anche per le proteste anti-israeliane della nuova generazione saudita, normalizzare, come vorrebbe fare, i rapporti con Israele e consentire ai paesi araba della regione di uscire – politicamente, religiosamente, economicamente – dal loro medio evo.
20/01/2025
da Remocontro