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Dossier Onu sulla parola ‘genocidio’

Dossier Onu sulla parola ‘genocidio’

Politica Estera

18/09/2025

da Remocontro

Remocontro

La Commissione Onu fissa un punto fermo: quanto sta accadendo a Gaza si avvicina drammaticamente alla definizione di genocidio sancita dalla Convenzione del 1948. Maurizio Delli Santi, della International Law Association su Avvenire

‘Quasi genocidio’

Il rapporto della Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite, guidata da Navi Pillay, non è solo un documento giuridico: è uno specchio nel quale la comunità internazionale è chiamata a riconoscere la propria immagine. Settantacinque pagine fitte di testimonianze, dati e analisi che, senza avere, al momento, forza giuridica vincolante, fissano però un punto fermo: quanto sta accadendo a Gaza non può più essere ridotto a «conseguenza inevitabile» della guerra, ma si avvicina drammaticamente alla definizione di genocidio sancita dalla Convenzione del 1948.

L’elenco dei fatti

La forza del dossier sta proprio nella sua essenzialità. Non proclami, ma un elenco puntuale di atti che corrispondono ai criteri della norma internazionale: i riscontri parlano di uccisioni diffuse, inflizione di sofferenze fisiche e psicologiche, distruzione deliberata di condizioni di vita essenziali, impedimento all’accesso ad acqua, cibo e cure, devastazione di ospedali e strutture sanitarie.

Le parole oltre le armi

Il rapporto insiste poi su un aspetto che pesa quanto le prove materiali: le parole pubbliche. Le dichiarazioni di leader e comandanti che parlano di «annientamento» e «distruzione totale» non sono, per i giuristi della Commissione, semplice retorica bellica, ma indizi concreti di quello ‘intentio necandi’ che la Convenzione considera decisiva per qualificare il genocidio. Non si tratta di valutazioni astratte: la Commissione sottolinea che in presenza anche di ‘solo’ rischio genocidio gli Stati non possono restare fermi. La Convenzione del 1948, infatti, non riconosce solo un divieto, ma impone un obbligo positivo di prevenzione.

Il giurista ebreo che coniò la parola genocidio

È inevitabile richiamare la figura di Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che per primo coniò il termine ‘genocidio’ per colmare il vuoto del linguaggio giuridico: quei massacri erano «crimini senza nome». A Gaza, oggi, secondo la Commissione Onu, quel nome non può più essere eluso: il rapporto segna proprio il passaggio dall’indicibile al definito, dalla denuncia morale all’inquadramento giuridico.

Il lungo percorso giuridico

Il percorso che attende il rapporto è chiaro. Come previsto dalle procedure Onu, verrà discusso dal Consiglio per i diritti umani a Ginevra, che potrà approvarlo e trasmetterlo ad altri organi. L’Assemblea generale potrà adottare risoluzioni di condanna o chiedere un parere consultivo alla Corte internazionale di giustizia. Il Consiglio di sicurezza, se non bloccato dai veti, potrebbe invece decidere misure vincolanti: deferimenti alla Corte penale internazionale, sanzioni, pressioni diplomatiche.

Peso politici concreto

Ma, indipendentemente da questi passaggi, il dossier ha già un peso giuridico e politico concreto: costituisce un documento ufficiale, destinato a entrare nei procedimenti pendenti all’Aia, dal ricorso del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia alle indagini della Corte penale internazionale su Hamas e sul governo israeliano.

Reazioni internazionali

Le reazioni della comunità giuridica sono significative. William Schabas, tra i maggiori esperti di diritto penale internazionale, lo considera «un passo inevitabile verso la qualificazione giuridica del genocidio». Philippe Sands, pur con maggiore prudenza, ammette che il materiale raccolto pone interrogativi seri che i giudici non potranno eludere. È la cifra del dibattito: da un lato chi ritiene già pienamente integrata la fattispecie, dall’altro chi richiama alla severità degli standard probatori. In mezzo resta una certezza: la questione non potrà più essere archiviata come discussione accademica.

Interessi geopolitici blocca tutto

  • Si potrebbe pensare che nulla cambierà, che i veti incrociati al Consiglio di sicurezza paralizzeranno ogni decisione, che gli interessi geopolitici prevarranno ancora una volta. Ma la storia insegna che rapporti simili, dal Ruanda alla ex Jugoslavia, hanno finito per incidere: a volte lentamente, ma con la forza testarda del diritto. È vero: il diritto internazionale non è rapido né lineare, eppure ha la capacità di costruire memoria e di aprire processi che, nel tempo, producono giustizia.
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