11/10/2025
da Il manifesto
LA STRADA DI CASA. Il tycoon si prepara a ricevere gloria e applausi in Israele, ma i disaccordi sui prigionieri palestinesi mettono a rischio la tregua. Ghassan Khatib: Israele non vuole liberare Marwan Barghouti perché possiede le capacità e il carisma per rilanciare il progetto unitario palestinese
Donald Trump ama la coreografia. Così, mentre in Israele si preparano a ricevere gli ostaggi di Gaza che saranno rilasciati lunedì dopo la ratifica, da parte del governo Netanyahu (con il «no» dell’estrema destra), dell’accordo di tregua con Hamas, il presidente americano sta apparecchiando il suo arrivo a Tel Aviv e Gerusalemme all’inizio della prossima settimana. Non ha ottenuto il Nobel per la pace e, per addolcire la delusione, vuole essere celebrato per il suo «ruolo decisivo» nell’accordo firmato al Cairo per la liberazione degli ostaggi e la tregua a Gaza, dopo due anni di massacri di innocenti avvenuti anche con il contributo delle bombe americane fornite a Israele.
Pronto a ricevere grandi applausi e ringraziamenti, Trump arriverà lunedì mattina in Israele in concomitanza con il rilascio degli ostaggi, che incontrerà subito dopo aver pronunciato un discorso alla Knesset. Non resterà molto: ripartirà già lunedì pomeriggio per recarsi in Egitto e partecipare a Sharm el-Sheikh alla firma dell’accordo su Gaza con Egitto, Qatar e Turchia. Martedì, o forse già lunedì sera, ancora in Egitto, prenderà parte a un vertice con i leader di Germania, Francia, Regno Unito, Qatar, Emirati, Giordania, Turchia, Arabia saudita, Pakistan, Indonesia e Italia.
Mentre progetta la sua glorificazione, Trump dovrebbe sollecitare i suoi scudieri, il genero Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff, a seguire con attenzione quanto accade dietro le quinte. Perché vacilla l’accordo tra Israele e Hamas sull’attuazione della prima fase del piano Trump: un segnale allarmante delle difficoltà ben più grandi che si incontreranno nella seconda fase, con il rischio di una ripresa dell’offensiva israeliana a Gaza. Sull’elenco dei 250 palestinesi che scontano l’ergastolo e che Israele ha accettato di scarcerare, non c’è accordo. «Israele continua a presentare la sua lista e a porre il veto su diversi nomi inclusi nell’elenco presentato da Hamas ai mediatori. L’intransigenza israeliana potrebbe portare al completo collasso del processo negoziale», avvertiva ieri il quotidiano online UltraPalestine.
Il conflitto non è solo su Marwan Barghouti, il Mandela della Palestina, in carcere da 23 anni ma sempre popolare nei Territori occupati, che il governo Netanyahu ha rapidamente posto fuori dalla lista. C’è il veto su tutti i nomi più noti, a cominciare da Ahmed Sadat, il segretario generale del Fronte Popolare (sinistra), per finire con alcuni comandanti militari di Hamas: Abdallah Barghouti, Hassan Salameh e Abbas al-Sayyed. Tutti sono legati al periodo della lotta armata nella Seconda Intifada palestinese (2000-2005).
«L’ostinazione di Israele ha varie motivazioni» ci ha detto l’analista Ghassan Khatib, docente all’Università di Birzeit. «Liberare quei prigionieri conosciuti e popolari significherebbe concedere una vittoria anche di immagine ad Hamas». Ancora più importante, ha aggiunto Khatib, «è l’aspetto politico. Israele teme l’influenza che questi leader incarcerati potrebbero avere nel quadro politico palestinese una volta tornati in libertà. Marwan Barghouti possiede le capacità e il carisma per rilanciare il progetto unitario palestinese e mettere fine alle fratture interne. E l’interesse di Israele è proprio quello di alimentare le divisioni politiche fra palestinesi e tenere fuori gioco le personalità di rilievo».
Malgrado le tensioni, Ghassan Khatib non crede che la questione dei prigionieri palestinesi finirà per paralizzare l’attuazione della prima fase dell’accordo. Hamas potrebbe accontentarsi, si fa per dire, di rivedere libere figure di spicco come Iyad Abu al-Rub (Jihad islamica), Muhammad Zakarneh (Fatah) e Mahmoud Qawasmeh, un suo dirigente. Senza sottovalutare, peraltro, che saranno liberati in totale 250 condannati all’ergastolo e 1700 palestinesi, in gran parte persone comuni, innocenti prelevate a Gaza dall’esercito israeliano dopo il 7 ottobre e incarcerate senza accuse, in condizioni durissime.
Il movimento islamico, inoltre, sa che il cessate il fuoco entrato in vigore ieri, con l’arretramento alla «linea gialla» dell’esercito israeliano (che ora controlla «solo» il 53% di Gaza), permette a centinaia di migliaia di civili di tornare alle loro case o, meglio, a ciò che ne resta dopo i pesanti bombardamenti israeliani, e che la popolazione comincia finalmente a ricevere quantità significative di aiuti umanitari. Un gruppo di dignitari della Striscia, indipendenti ma vicini al movimento islamico, tra cui Yahya al Sarraj, sindaco di Gaza City, e Iyad Abu Ramadan, presidente della Camera di commercio, ha inviato ieri una lettera a Trump per ringraziarlo di aver posto fine alla guerra e invitarlo a visitare la Striscia.
Un portavoce ha anche ribadito alla tv saudita Al Arabiya che Hamas «non ha intenzione di svolgere alcun ruolo nel futuro dell’amministrazione di Gaza, ma sul suo disarmo sono necessarie delle trattative». Il movimento islamico non intende rinunciare totalmente alle armi, come prevede il piano Trump, poiché, spiega, le leggi internazionali riconoscono a un popolo oppresso il diritto di resistere, anche con la lotta armata, a un’occupazione straniera. Benyamin Netanyahu sa che il mancato disarmo totale di Hamas potrebbe offrirgli l’occasione di riprendere l’offensiva come vuole la destra estrema sua alleata. «Israele – ha ammonito ieri in un video – vigilerà sull’attuazione delle prossime fasi del piano di pace, quando Hamas sarà disarmato e Gaza smilitarizzata. Teniamo Hamas sotto controllo da ogni lato, in preparazione delle prossime fasi del piano». Se l’obiettivo del disarmo «verrà raggiunto nel modo più semplice, così sia. Altrimenti, sarà raggiunto nel modo più difficile», ha minacciato.