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Economia di guerra permanente

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17/10/2025

da Il Manifesto

Francesco Vignarca

Un futuro già scritto Il riarmo non è più semplice «deriva» militarista, ma scelta politica lucidamente brutale, e pericolosa, sulle spalle dei popoli europei

Non è un fantasma, è un Moloch quello che attraversa l’Europa e ne ipoteca il futuro. È la militarizzazione del discorso politico e dell’economia.

Comincia ormai a determinare scelte e decisioni di lungo periodo, preparate e rese «naturali» da una retorica martellante che trasforma la paura in consenso e l’industria militare in futuro inevitabile. Non più semplice «deriva» militarista, ma scelta politica lucidamente brutale, e pericolosa, sulle spalle dei popoli europei.

Siamo di fronte – ce lo dicono i dati, oltre che gli annunci – a un riarmo strutturale, pianificato e non solo a una congiuntura passeggera contraddistinta da aumenti della spesa militare. Nel 2021 la spesa militare complessiva dei Paesi Ue era di 218 miliardi di euro, nel 2024 è salita a 343 miliardi e le previsioni consolidate per l’anno in corso si attestano sui 392 miliardi (molto vicini alla soglia psicologica dei 400). Già questo basterebbe a mostrare che il presunto «sottofinanziamento della difesa» agitato da Commissione e Consiglio Ue è una costruzione ideologica. Non solo perché la spesa militare è già oggi ai massimi storici e cresce più di qualsiasi altro capitolo di bilancio pubblico, ma perché viene fatta passare l’idea che per difendersi occorra armarsi. Mentre il modo migliore per costruire una vita collettiva più sicura è quello di garantire diritti e lavorare all’attenuazione dei conflitti.

La vera portata del militarismo europeo si coglie dando uno sguardo al futuro che viene tratteggiato. Kubilius, Commissario Ue alla Difesa, è stato esplicito: «Noi europei investiremo entro il 2035 circa 6.800 miliardi di euro nel comparto militare, con il 50% che confluirà nell’acquisto di armamenti: sarà un vero big bang finanziario». E ha chiarito che il 90% del peso ricadrà sui bilanci degli Stati membri. Perché l’obiettivo vero non è per nulla una strutturazione definitiva dell’Unione anche sul piano militare e di difesa, ma è quello di avvantaggiare gli interessi armati. Lo dimostra anche l’ennesimo cambio di nome del piano di riarmo della commissione, che con l’ultima operazione cosmetica è stato presentato come Preserving Peace-Defence Readiness Roadmap 2030 (ancora una volta il richiamo mistificatorio alla Pace serve a convincere opinioni pubbliche che sono refrattarie a richiami bellicisti). Ad ogni step si cambia nome per renderlo più vendibile, ma la sostanza resta: costruire un’Europa armata prima ancora di costruire una vera politica estera comune. Che dovrebbe essere l’unica strada logica e sensata, anche per chi vuole una «Europa forte» sul versante militare. Invece, prima gli strumenti della guerra, poi – forse, un giorno – la politica. Un’inversione logica e democratica che favorisce un solo soggetto: i produttori di armi.

Perché questo è il punto: l’accelerazione non è pensata per la difesa dei popoli europei, ma per alimentare i profitti. Lo dimostrano anche i programmi già attivi – come l’European Defence Fund o il programma Asap – nonché gli stessi i dati di Bruxelles: questi strumenti non hanno portato alcuna integrazione reale della produzione bellica europea. Ogni Paese continua a comprare e produrre per sé, seguendo logiche di piccolo potere e influenze di piccoli interessi industriali, frammentando il mercato e rimanendo succube della preminenza tecnologica Usa.

Questa corsa folle viene giustificata con la paura di minacce esterne agitate a comando per sospendere il pensiero critico e azzerare il dibattito democratico. Ma è un inganno. Perché quella che chiamano «difesa» è solo architettura militare, mentre la difesa reale – sociale, civile, diplomatica, energetica, informativa – non viene nemmeno discussa. E soprattutto perché ogni miliardo speso oggi in armi è un miliardo sottratto alla scuola, alla sanità, alla riconversione ecologica, alle politiche sociali. Si chiama economia di guerra permanente.

La società civile attiva per la pace e per il disarmo lo denuncia da anni: l’aumento degli investimenti militari non porterà più sicurezza, ma più instabilità e più crisi. E soprattutto ipotecherà il futuro: il riarmo europeo è costruito con debito pubblico e vincoli di spesa pluriennali, che passeranno come un cappio ai prossimi governi e alle prossime generazioni. Di fronte a questo salto quantico forse non basta più solo monitorare o denunciare: servono alternative strutturali alla guerra. Servono politiche di sicurezza non armata e difesa civile europea. Serve una diplomazia autonoma e multilaterale. Serve disinnescare la centralità dell’industria bellica nell’economia europea. Perché non è vero che non ci sono alternative. Il problema è che non si vogliono discutere.

Quello che ci aspetta non è una parentesi. È un bivio storico. O lasciamo che l’Europa si trasformi in una fortezza armata al servizio dei profitti militari, o costruiamo un altro modello di sicurezza. Che parta dalle persone, non dalle armi.

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