Germania kaputt. Il termometro economico della prima potenza industriale europea, non promette nulla di buono. Gli indicatori più positivi segnalano ‘stagnazione’, ma con la recessione ormai alla porta. E se le cose vanno male a Berlino, significa che da tutte le altre parti, nel Vecchio continente, Roma in testa, ci si deve preparare a stringere i cordoni della borsa.
Tutti costretti ad inseguire la banca centrale Usa, pronta ad alzare ancora i tassi, ‘obiettivo inflazione al 2%’. E l’Europa annaspa.
Livello di fiducia delle aziende
L’ultimo sondaggio, dell’istituto IFO di Monaco sul cosiddetto ‘livello della fiducia delle aziende’, certifica che è crollato all’85,7, al minimo degli ultimi 10 mesi, e ha interessato tutti i settori principali del sistema: il manifatturiero, la vendita al dettaglio, i servizi e l’edilizia. Ma questi dati si sommano a quelli arrivati qualche giorno fa, riguardanti gli ‘acquisti di magazzino’ (chiamiamoli ‘prodotti per produrre’) fatti dai responsabili delle scorte. Anche quest’indice è precipitato in tutta l’Eurozona (a 47), segnalando che si compra di meno all’ingrosso, perché si vende di meno al dettaglio. Insomma, siamo di fronte a una caduta verticale della domanda, stritolata dalla tenaglia fatta da alti tassi d’interesse e relativo costo del denaro e persistente inflazione, diminuita sì, ma attestata intorno al 5%.
Banca Centrale Europea
La palla passa, quindi, alla Banca centrale europea, che nella prossima riunione, secondo alcuni analisti, dovrebbe lasciare i tassi invariati. Ma non è detto. All’Istituto di Francoforte, tranne che durante l’interregno di Supermario Draghi, di fatto hanno sempre comandato i tedeschi. Ossessionati dalla sindrome inflattiva di Weimar. Utile citare la presa di posizione del capo della Bundesbank, Joachim Nagel, componente del consiglio direttivo BCE, il quale ha sibilato che «è troppo presto per pensare a una pausa nell’aumento dei costi di finanziamento». Tradotto significa che, per come la vede Berlino, l’Istituto di Francoforte deve continuare ad alzare i tassi, per tagliare definitivamente la testa all’inflazione. Sperando, aggiungiamo noi, che non tagli anche le gambe alle economie di tutti quei Paesi, come l’Italia, che lottano disperatamente per non precipitare in una pericolosa recessione, capace di scatenare anche turbolenze sociali e politiche.
Recessione tedesca
Una recessione che, nel caso della Germania, è data per acquisita dalla Bundesbank, che ha parlato di una flessione del Pil, nel 2023, di circa lo 0,3%. Berlino dovrebbe riprendere a crescere il prossimo anno, ma senza squilli di tromba, visto che le previsioni più ottimistiche le accreditano un + 1,2% di Pil. «I tassi di interesse elevati, i prezzi persistentemente alti e la mancanza di slancio da parte del commercio estero, così importante per la Germania – ha detto Claus Niegsch (DZ Bank) – continueranno a pesare sull’economia nella seconda metà dell’anno. Così il Paese scivolerà in un’altra recessione negli ultimi due trimestri, prima che la ripresa possa iniziare l’anno prossimo». E fin qui i ‘panni economici sporchi’, se così possiamo dire, l’Europa ha cercato di lavarseli in famiglia. Cosa che le sarà molto più difficile fare, però, dopo il discorso, decisamente aggressivo, pronunciato ieri dal Presidente della Federal Reserve americana, Jay Powell.
La politica economica Usa su tutti
Parlando al meeting di Jackson Hole, il ‘guru’ di tutte le Banche centrali del mondo è andato dritto al sodo, dicendo che l’inflazione resta troppo alta e che probabilmente occorrerà insistere con il rialzo dei tassi d’interesse. Notizia ferale, per tutti quegli economisti (e quei politici) angosciati dalle prospettive di una recessione che si va materializzando, specie nel Vecchio continente. Al simposio finanziario mondiale del Wyoming, Powell sapeva benissimo che le sue parole avrebbero condizionato pesantemente i mercati. Non solo, ma sarebbero anche state come un sasso, fragorosamente lanciato nella piccionaia della Banca centrale europea, dove ormai si confrontano due partiti: le ‘colombe’ che dicono basta al rialzo dei tassi di interesse e i ‘falchi’, sempre ossessionati dal demone di un’inflazione pronta ad aggredire la stabilità dell’euro.
Tra falchi e colombe Ue, i guai d’Italia
A settembre, bisognerà vedere da quale lato penderà la bilancia. Certo, l’analisi e le previsioni tracciate da Powell non possono lasciare tranquilli gli europei, le cui mosse sono inevitabilmente collegate a quelle della Federal Reserve. Con tassi di riferimento tra il 5,25% e il 5,50%, l’Istituto centrale americano ‘vende’ il suo denaro troppo caro, dice qualcuno, preoccupato per le prospettive di generale frenata dell’economia. Eppure, Powell, pur ammettendo questa congiuntura, ha ribadito che la FED continuerà a concentrarsi sulla lotta all’inflazione. L’obiettivo?
Dovrebbe essere quello, come per la BCE, di arrivare, nel medio-lungo periodo al tasso fisiologico del 2%. Anche se, con terapie di questo tipo e ricordando quello che diceva John Maynard Keynes, «è probabile che nel lungo periodo saremo già tutti morti».