Mentre si continua a trattare con Donald Trump, nella speranza di ammorbidire i suoi dazi, il governo italiano è chiamato a farsi qualche domanda. Non solo sulla strategia da seguire ora, ma anche su quelle passate. Sull’aver scelto di stare dalla parte del tycoon, politicamente parlando, e sui frutti che questo ha dato.
Saranno dazi, e fin qui non ci piove. Ma l'Europa è comunque convinta di poter strappare a Donald Trump degli accordi vantaggiosi, almeno (si spera) per alcune merci particolarmente strategiche. Del resto, converrebbe ad entrambe le sponde dell'Atlantico mantenere buone relazioni commerciali. Così si continua a trattare. Il fattore Trump, però, è sempre dietro l'angolo: le normali logiche diplomatiche non sembrano più valere e il presidente statunitense cambia idea ogni due secondi. E questo, già di per sé, fa male ai mercati.
In queste ore il tycoon sta giocando a C'è Posta Per Te. Sta mandando le sue "grandi belle lettere" ai Paesi con cui non riesce a raggiungere degli accordi, come il Giappone e la Corea del Sud, due alleati di Washington in estremo oriente che però ora si beccheranno dazi al 25%. Come se non bastasse, Trump non si astiene dall'intimidire questo o quell'altro Paese postando sui social le sue missive: a riceverle anche il Sudafrica, a cui toccheranno dazi del 30%, il Kazakistan e la Malesia, con cui si resta al 25%, ma anche il Laos e il Myanmar, dove le tariffe raggiungono il 40%.
Per ora niente letterina a Bruxelles. "Non commenteremo le lettere che non abbiamo ricevuto, né le dichiarazioni dell'amministrazione statunitense", hanno fatto sapere dalla Commissione, limitandosi a spiegare che in queste ore i negoziati non si fermeranno. La nuova scadenza – spostata in avanti per l'ennesima volta – è quella del primo agosto. E Giorgia Meloni, in tutto questo?
"La premier italiana vuole chiudere, spera che si arrivi già nelle prossime e ore a un compromesso – scrivono sul Corriere della Sera Marco Galluzzo ed Enrico Marro – In questo quadro ieri ha sentito il presidente francese Emmanuel Macro, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen". Il governo italiano, però, non sarebbe così preoccupato alla fine. Prima l'ha detto Meloni, poi l'ha ribadito anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani, e infine è stata la volta del ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti: "In linea con Meloni Giorgetti ritiene che se la partita con Washington si chiudesse con un livello generale di dazi del 10%, come nell'intesa fra Trump e il premier britannico Starmer, si tratterebbe di un costo gestibile per le esportazioni italiane, a patto di riuscire a limitare al massimo le deroghe. Preoccupa infatti l'ultima minaccia della Casa Bianca: il dazio del 17% sui prodotti agroalimentari della Ue, una misura che colpirebbe soprattutto Italia e Francia". Su questo la parola passa al ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida: "Il governo italiano spinge per evitare il più possibile una guerra commerciale. Si tratterebbe di una mossa «insensata» per Lollobrigida. Rispondere con contro-dazi europei non sarebbe conveniente, in particolare per l'Italia. «Siamo un Paese trasformatore e quindi pagheremmo due volte i dazi», sulle materie importate dagli Usa e poi su quelle esportate. Meglio limitare i danni e poi sfruttare tutte le occasioni ampliare le quote di mercato, negli stessi Stati Uniti e fuori".
Ok il pragmatismo, ma c'è bisogno anche di tenere il punto sul significato politico di tutto quello che stiamo vivendo. E a farlo, ancora una volta, è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Non menziona direttamente Trump, né le tariffe. Ma il messaggio è chiaro. È Monica Guerzoni a seguirlo nella sua visita in Croazia e a scriverne sul Corriere della Sera: "Senza nominare l'inquilino della Casa Bianca, né il termine dazi, il presidente della Repubblica condanna il protezionismo, come una politica economica che può minare la concordia internazionale e favorire le guerre. E loda le frontiere aperte, strade di terra e di mare sulle quali, oltre alle merci, corre anche la pace. I dazi trumpiani sono per lui «un errore profondo», lo aveva detto tre mesi fa e non ha cambiato idea".
E ancora: "Nella visione di Mattarella l'Unione ha sempre coltivato «la vocazione alla pace e la mantiene», l'ha preservata per quasi ottant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, fino a diventare «un modello di convivenza serena» in questa drammatica fase di «guerre angosciose». E ora si ritrova «al centro di una rete di relazioni commerciali aperte con molte parti del mondo che, creando interessi comuni, rappresentano un veicolo di pace». Insomma, gli Usa non son l'unico partner con cui i 27 possono scambiare le loro merci".
Se quello di Mattarella è un messaggio politico nel senso più ideologico del termine, forse ce n'è anche un altro, di stampo più politico-strategico, che il governo italiano dovrebbe cogliere in queste giornate di trattative. Un messaggio che può essere ben riassunto in un commento di Flavia Perina, pubblicato oggi da La Stampa.
"Solo adesso, a ridosso di una scadenza fatale e sotto la spada di Damocle di una nuova lettera-ultimatum, il governo italiano comincia a percepire la portata dello strappo trumpiano e la determinazione del presidente Usa di rompere l'asse occidentale in tutte le sue componenti: commerciale, militare, politica. Donald Trump esercita un sovranismo in purezza, qualcosa di assai diverso dalle blande imitazioni che hanno tanto preoccupato l'Europa provocando peraltro danni limitati, perché nessuno dei leader nazionalisti arrivati al governo ha rispettato i suoi programmi, uscire dall'Unione, abbandonare la moneta unica, disconoscere le norme e i trattati. Trump al contrario è coerente con il suo imprinting su ogni tavolo. E su ogni tavolo chiede sottomissione all'atto di forza americano".
Si potrebbe discutere dei sovranismi europei. Sul fatto che forse sì, non hanno messo così tanto in discussione le sovrastrutture istituzionali, ma sono comunque riusciti a cambiare profondamente l'Europa dall'interno, sul fronte ideologico e sociale. Però il punto su Trump resta: c'è la messa in discussione di ogni logica diplomatica pregressa, e c'è la volontà di supremazia che non conosce limite.
Perini prosegue: "In Italia il capitolo finale dello scontro sui dazi fa franare due racconti della destra, uno ideologico e l'altro assai pratico. Il primo è quello legato al sogno della grande alleanza sovranista che avrebbe dovuto modificare i paradigmi dell'Occidente, sostituendo al buonismo progressista l'orgoglio delle storie e delle radici, il Dio-Patria-Famiglia collettivo e dunque una nuova trama condivisa che avrebbe avvantaggiato tutti i soci del club. Non è successo. Dell'enclave conservatrice l'Italia fa parte a pieno titolo eppure non ne ricava vantaggi. (…) L'altra questione riguarda le categorie che fino a pochi giorni fa hanno creduto a soluzioni a impatto zero, soprattutto l'agroalimentare, il vino, la farmaceutica, che sono anche i grandi bacini elettorali della destra italiana. Stanno già calcolando le perdite economiche e occupazionali, e oltre le perdite c'è l'umiliazione della mancata reciprocità perché se le nostre merci andranno oltreoceano a caro prezzo, quelle americane arriveranno qui a dazio zero. Ogni equilibrio sembra perso. E la protezione governativa su cui si faceva conto comincia a rivelarsi un'illusione".
Insomma, parafrasando e semplificando, è comprensibile che un sovranista si vanti di esserlo. Ma non che si rallegri quando anche gli altri lo diventano. Perché nel mondo dell'individualismo geopolitico, che fa rinchiudere ognuno in sé stesso e fa dimenticare le regole del multilateralismo, ci sarà sempre il sovranista più potente, più influente, più ricco – e chi più ne ha più ne metta – che costringerà tutti gli altri a piegarsi a lui.
09/07/2025
da Fanpage