L'unico paese che può dirsi relativamente tranquillo è la Germania. Tutti gli altri hanno messo il carro davanti ai buoi, accettando il piano Nato senza ancora sapere dove trovare il denaro. Secondo S&P l'opinione dell’elettorato sarà "il fattore principale nella volontà dei governi di soddisfare gli obiettivi"
Si fa presto a dire 5%. Passare dalle promesse ai fatti, è un altro paio di maniche, non solo per l’Italia. L’impegno concordato a livello Nato dai paesi europei di alzare significativamente le spese per armi ed eserciti è stato assunto con superficialità e senza fare troppi conti. Del resto, per i capi di governo promettere qualcosa che, molto probabilmente, dovrà poi realizzare qualcun altro, ammesso che deciderà farlo, non è cosa insolita. L’impressione è che si siano sottoscritti impegni estremamente gravosi, con aumenti di spesa nell’ordine di centinaia di miliardi di euro l’anno, curandosi poco delle conseguenze. E ora i primi nodi stanno venendo al pettine.
L’unico paese che può dirsi relativamente tranquillo è la Germania, che prima ha creato lo spazio fiscale per finanziarlo e, solo in un secondo momento, ha deciso di avviare un imponente piano di riarmo. A seconda delle ipotesi di crescita, il rapporto debito/Pil tedesco è destinato a salire in dieci anni dal 60% circa odierno ad una cifra compresa tra l’80 e il 100%. Un valore comunque inferiore a quello che presentano paesi come Italia, Spagna o Francia.
Tutti gli altri hanno messo il carro davanti ai buoi, accettando il piano Nato senza ancora sapere dove trovare il denaro. Oltre all’Italia, pure Francia e Gran Bretagna hanno finanze pubbliche in difficoltà e su cui è pericoloso caricare ulteriore debito. Berlino è categorica nel respingere l’ipotesi di eurobond che consentirebbero ai paesi più indebitati di alleggerire un poco gli interessi da pagare sul debito aggiuntivo. In compenso si è adoperata per dare la possibilità ai paesi euro di indebitarsi maggiormente, rinnegando la sua storica severità nel controllo dei conti degli altri. La Spagna può almeno contare su tassi di crescita tripli rispetto a Italia o Francia, ma, paradossalmente, è l’unico paese che si è sottratto al “cappio” del 5%.
L’agenzia di rating statunitense Standard & Poor’s ha avvertito che l’opinione dell’elettorato sarà “il fattore principale nella volontà dei governi di soddisfare gli obiettivi Nato” di una spesa pari al 3,5% del Pil. La fine del “dividendo della pace” di cui hanno goduto molti paesi europei nei decenni scorsi, il quale ha permesso l’espansione del welfare state a scapito delle spese per la difesa, può “provocare contraccolpi politici“, avvisa S&P, ed essere sfruttato dai “partiti populisti utilizzando il riarmo come argomento per alimentare il malcontento”.
Non ci vuole chissà quale studio per capire che, senza la possibilità di indebitarsi, i soldi per le armi andranno trovati alzando le tasse o tagliando la spesa pubblica (pensioni, sanità, istruzione, etc). Nonostante una battente propaganda, di fronte ad una minaccia militare estremamente vaga (un’invasione della Russia su scala europea? una Cina armata e imperialista?), far digerire agli elettorati decisioni di questo genere sarà pressoché impossibile per chiunque sarà al governo.
Ma prima di guardare al futuro guardiamo cosa sta accadendo già oggi. La Gran Bretagna è alle prese con una nuova crisi politica e gli investitori sono sempre più scettici sulla sostenibilità nel lungo termine del debito pubblico. Il governo laburista ha dovuto fare marcia indietro su molti dei tagli alla spesa sociale che aveva annunciato.
L’Office for Budget Responsibility del Regno Unito ha scritto di aver sottostimato l’indebitamento a 5 anni di circa il 3,1% del Pil, ossia 100 miliardi di sterline (116 miliardi di euro) e il debito è vicino al 100% del Pil. La spesa per gli interessi supera i 150 miliardi di sterline l’anno, ben più dell’Italia, visto che un bond decennale inglese paga il 4,5% a fronte del 3,4% di un Btp. Eppure il premier Keir Starmer si è impegnato a raggiungere l’obiettivo di spesa per la difesa del 5%, senza avere idea di come finanziare gli almeno 30 miliardi di sterline aggiuntivi che servono ogni anno. Diversi osservatori prevedono che la manovra di autunno sarà pesante, con forti aumenti delle tasse. Se si tirerà dritto sulla strada del riarmo, inevitabilmente, arriveranno altri tagli al welfare. Un primo assaggio c’è già stato.
Spostiamoci in Francia. Per ora il governo è stato estremamente vago sul modo con cui verranno finanziate le spese per la difesa. Parigi spende ogni anno per le armi circa il 2% del Pil (60 miliardi di euro). Per arrivare al 5% servono altri 90 miliardi di euro, ogni anno. L’Esecutivo francese, che ha fatto una grande fatica a racimolare 40 miliardi per far quadrare il bilancio del 2026, non sa dove sbattere la testa. Il debito è visto quasi al 120% nel 2026 e i titoli di Stato francesi rendono ormai quanto quelli italiani.
Emmanuel Macron annuncerà il suo piano per le forze armate il 13 luglio ma difficilmente indicherà con precisione dove reperire le risorse. Il ministro della Difesa Sébastien Lecornu, ha affermato che il modo in cui si raggiungerà l’obiettivo dipende da “cosa viene incluso”. È vero che i governi europei stanno cercando di fare entrare nel capitolo “difesa” di tutto e di più (l’Italia vuole, ad esempio, infilarci pure il ponte sullo Stretto di Messina in quanto opera di valore strategico) ma, se così fosse, l’impegno Nato verrebbe semplicemente disatteso per altra via.
“Più proiettili e meno previdenza sociale?”, si chiedeva qualche tempo fa il quotidiano Le Monde. Il primo ministro François Bayrou che ha assicurato che il riarmo del paese verrà effettuato “senza abbandonare nulla del modello sociale “. Ma politici, esperti e saggisti ritengono che le risorse aggiuntive per l’esercito porteranno ad una revisione delle regole dello stato sociale, ovviamente in senso restrittivo.
In nessun paese sembrano esserci i presupposti per far digerire all’elettorato la necessità di lacrime e sangue per contrastare un non meglio precisato possibile invasore. Giova inoltre ricordare che, già oggi, gli stati Ue spendono in difesa oltre 360 miliardi di euro (il 30% in più del 2021). In valori assoluti è più del doppio del budget della Russia, anche in questi anni di spesa bellica schizzata per finanziare la guerra in Ucraina, ed è superiori agli stanziamenti cinesi (che sono però in progressivo aumento).
È vero che ogni paese ha le sue priorità strategiche e che quindi la spesa si divide in tanti capitoli non coordinati tra loro, che la rendono meno efficiente in termini di contrasto ad una minaccia unica. È possibile che sia necessario uno sforzo, anche economico, per coordinare meglio le varie forze armate dei paesi che sono parte dell’alleanza. Questo però è diverso dall’inchiodare tutti i paesi membri a un livello di spesa insostenibile senza grandi sacrifici. Non è un segreto che la Ue speri anche che più investimenti in difesa abbiano anche un effetto di spinta sull’economia. Ma il “keynesismo militare”, storicamente, funziona poco e male e non è certo in grado di risolvere i problemi economici strutturali di un paese o un insieme di stati.
08/07/2025
da Il Fatto Quotidiano