ATTUARE LA COSTITUZIONE PER CAMBIARE L'ITALIA

ATTUARE LA COSTITUZIONE PER CAMBIARE L'ITALIA

ATTUARE LA COSTITUZIONE PER CAMBIARE L'ITALIA

Federico Aldrovandi, vent’anni dopo: una storia di lotta per la verità, resistenza e giustizia

Federico Aldrovandi, vent’anni dopo: una storia di lotta per la verità, resistenza e giustizia

Da non dimenticare

25/09/2025

da Valigia blu

di Federica Delogu e Marica Fantauzzi

All’alba di una domenica mattina di vent’anni fa, il 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi, diciotto anni, scendeva da una macchina, a Ferrara, e si avviava verso casa. Quella di Federico che si allontana a piedi è l’ultima immagine di lui che ne hanno gli amici. L’immagine successiva è la foto del ragazzo sul tavolo dell’obitorio. 

La storia di Federico Aldrovandi è la storia di un ragazzo che mentre torna a casa dopo una serata con gli amici muore ucciso da quattro agenti di polizia in servizio. Ma è anche la storia di una mobilitazione collettiva che dura da vent’anni, iniziata con un post su un blog scritto da Patrizia Moretti, sua madre. Una storia che inizia a Ferrara e che poi da lì arriva ovunque in Italia, simbolo degli abusi di polizia ma anche della lotta per i diritti e la giustizia.  

“Non è mai esistito il giorno dopo”, scriveva Patrizia Moretti, il 2 gennaio 2006, ripercorrendo l’ultima giornata di suo figlio, come frase conclusiva del primo post del blog che aveva aperto a poco più di due mesi dalla morte di Federico, per raccontare che la verità ufficiale che le avevano consegnato non poteva essere vera.

E che suo figlio non era la persona che avevano descritto in quelle settimane giornali e polizia. 

Non si saprà mai l’esatta dinamica di quella sera, ma la verità giudiziaria è arrivata nel 2012 e con sentenza definitiva ha decretato che quello di Federico Aldrovandi è stato un omicidio colposo, con eccesso colposo nell’uso delle armi. Quella sera Federico l’aveva trascorsa a Bologna. Gli amici, che hanno ricostruito quelle ore centinaia di volte in questi anni, ricordano ancora che faceva caldo, nonostante fosse fine settembre, e che al ritorno in macchina lui si era addormentato; poi però aveva detto all’amico Matteo Parmeggiani, che guidava la macchina, di non accompagnarlo sotto casa, perché preferiva fare una passeggiata. Il giorno dopo gli amici verranno a sapere della morte dalla polizia che li interrogava e chiedeva loro se il ragazzo fosse “un drogato”. Molti di loro troveranno delle chiamate senza risposta sui loro telefoni: Federico ne aveva fatto in tutto nove quella mattina, ma tutti già dormivano.

Quello che invece sappiamo è che in quelle prime ore del mattino arriva una chiamata al numero di emergenza di Ferrara: è una donna che vive in via Ippodromo, che segnala la presenza di un ragazzo che urla. Il ragazzo è sicuramente lui, ma non si sa perché urli, e nelle comunicazioni successive quell’informazione sarà trasformata in un ragazzo “che urla e sbatte la testa contro i pali”. Una persona dunque, in forte stato di agitazione, che compie gesti autolesionistici. Informazione che la donna, come confermerà al processo, non aveva mai dato, anche perché lei non poteva vedere il ragazzo ma solo sentire le sue grida. Il pestaggio che seguì, o che forse era già in atto al momento della chiamata, coinvolse prima due agenti, poi altri due accorsi sul posto. Ore dopo il corpo di Federico era ancora là, 54 lesioni sul corpo, come stabilirà in seguito l’autopsia, mentre il suo telefono squillava a vuoto e nessuno rispondeva alle chiamate insistenti della madre. Quando invece a chiamare fu il padre, salvato in rubrica con il nome, Lino, un agente rispose. Non gli disse cos’era successo, gli chiese invece di descrivere suo figlio.

Della morte del figlio Patrizia e Lino lo seppero da un amico, funzionario della Digos, che chiamato sul posto riconobbe Federico. Fu lui, insieme a due agenti, a presentarsi a casa e dare la notizia. Una notizia che il giorno dopo fu pubblicata sui giornali nella formulazione ufficiale che ne aveva dato allora la polizia di Stato: un ragazzo agitato, morto durante un controllo di polizia a causa della droga che aveva assunto. E così rimase per molti mesi, senza che nessuno la mettesse in discussione.  Fino al blog

Valentina Calderone, garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, per anni è stata direttrice dell’associazione A Buon Diritto e si è occupata a lungo della vicenda: “Con il blog di Patrizia Moretti è come se ci fosse stato un vero e proprio disvelamento: era la prima volta, in anni recenti, che si capiva quanto l’intervento dei singoli familiari potesse essere determinante per non arrivare a un’archiviazione. O per riuscire, quantomeno, a ottenere un processo”.

Il blog  apre uno squarcio nel silenzio di quei mesi. Le persone commentano, arriva una prima testimonianza anonima, si scopre che in realtà quella mattina molte persone avevano sentito e visto. Ma c’era paura. La polizia, lo si scoprirà nel processo Aldrovandi bis anni dopo, aveva fatto un giro, casa per casa, dei palazzi che affacciano sulla strada, a poche ore dalla morte del ragazzo. “La prima preoccupazione era che non venisse fuori la verità e, successivamente, quella di non assumersi la responsabilità di quanto emergeva” commenta Calderone, che prosegue: “E poi la criminalizzazione che hanno subito le persone che quel blog lo hanno frequentato e animato: procedimenti e denunce. Che in realtà poi era semplicemente uno spazio in cui si metteva in dubbio la prima versione ufficiale e in cui si chiedeva con forza che venissero fatte delle indagini serie”.

Perché la versione ufficiale, quella di un giovane agitato, sotto sostanze stupefacenti, che si era ferito da solo e che aveva aggredito i poliziotti tanto che due manganelli si erano rotti nel tentativo di fermarlo, come si seppe nel corso della risposta dell’allora ministro Giovanardi a un’interrogazione parlamentare, doveva essere l’unica versione possibile. Eppure Federico Aldrovandi aveva nel corpo valori di alcol inferiori al limite consentito e aveva assunto delle sostanze, in modica quantità, che avrebbero avuto semmai un effetto calmante. Fu una donna, straniera, con un figlio e con il permesso di soggiorno in scadenza il mese successivo, a raccontare di aver assistito al pestaggio.

Del caso di Federico, a partire dal blog, si occuperà nei mesi successivi la trasmissione di Rai3 Chi l’ha visto, i quotidiani Manifesto e Liberazione, l’associazione A Buon Diritto e sempre più persone, associazioni, attivisti ed attiviste, media. I tifosi della Spal, la squadra di calcio di Ferrara, e in seguito quelli del Bologna e di altre squadre, portarono l’immagine di Federico negli stadi. 

Proprio nel 2005 nacque il Comitato per Federico, promosso dalla famiglia e dagli amici. “Dopo la sua uccisione - ricorda Andrea Boldrini, amico storico di Federico - fondammo il comitato verità e giustizia, in sostegno alla famiglia nella fase processuale. Terminata la fase processuale,  ci trasformammo in associazione. Siamo andati avanti fino al 2018, quando dopo il concerto del 25 settembre la famiglia ci chiese di rispettare il silenzio per il loro dolore”. 

Nel frattempo Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi, che continuavano a chiedere che fosse fatta luce su quello che era successo al figlio quella mattina, venivano accusati di voler contrastare l’operato della polizia: “Quello che ha spaventato nella vicenda di Federico - ricorda Calderone - era la forza dirompente con la quale la famiglia e gli amici non si sono mai arresi. Sembrava umanamente impossibile pensare di resistere a quella mole di attacchi, insulti, bugie, denunce che hanno subito Patrizia e Lino. Poliziotti che applaudivano i loro colleghi condannati, manifestazioni dei sindacati della polizia sotto l’ufficio di Patrizia. È stata fatta qualunque cosa per denigrare Federico e la sua famiglia. Tutto questo rappresenta evidentemente la sfrontatezza del potere che è convinto di essere ingiudicabile. E quando questa certezza di impunità viene fatta saltare, perché c’è chi non si piega e trova continuamente alleanze, tutto il meccanismo inizia a sgretolarsi”. 

La famiglia, ricorda, non si è mai stancata di cercare un dialogo, anche con le forze di polizia. Non hanno mai chiesto vendetta, ma una piena assunzione di responsabilità da parte di quella istituzione “che invece non aveva alcuna intenzione di farlo. Neanche prendendo le distanze dalle quattro persone che uccisero Federico. Pensate che quando facemmo la richiesta di accesso agli atti per chiedere come fossero andati i procedimenti disciplinari nei confronti degli agenti dopo la condanna la negarono dicendo che Patrizia Moretti non aveva un interesse legittimo a conoscere l’esito e le carte di quel procedimento”.

La vicenda di Aldrovandi, ricorda Calderone, non è l’unica: “Ovviamente non era la prima volta che capitava, - prosegue - a Genova quel meccanismo lo avevamo visto nitidamente”. Ma se in quell’occasione la posta in gioco era il dissenso politico e il ruolo dello Stato “il fatto che questa macchina di copertura operasse con così tanta forza e con così tanta pervicacia nel caso di una singola persona che era stata uccisa in quelle condizioni era un segnale preoccupante. E, soprattutto, ci imponeva una domanda: quante altre storie simili a quella di Federico ci sono state di cui noi non sapremo mai niente? Perché magari non c’era una famiglia in grado di sopportare quel dolore pubblicamente e perché non sempre esiste una rete capace di arginare tutto quel male. La vicenda di Federico è stata una sentinella di un meccanismo che probabilmente si era ripetuto chissà quante volte e di cui noi, all’epoca, non avevamo ancora una percezione così chiara”.

Quella lotta per la verità diventa, grazie a Patrizia, Lino e gli amici di Federico, una lotta collettiva: “Ci fu chiara l’arroganza di un potere che crede di poter piegare le vite delle persone, di poter piegare le loro libertà, di poter negare i diritti. Ma ci fu anche altrettanto chiaro quanto valesse la pena metterci insieme, perché in quella vicenda c’erano temi che ci riguardavano eccome: ci riguardava l’affermazione della verità, ci riguardava lottare affinché si dicesse che Federico non era morto, ma era stato ucciso nelle mani dello Stato”.

Si arriva al processo, e in tre gradi di giudizio i quattro imputati per l’omicidio di Federico vengono ritenuti colpevoli. Condannati a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo, i quattro agenti, tre uomini e una donna, sconteranno alcuni mesi di detenzione in carcere. L’obiettivo di quella mobilitazione, però, non aveva a che fare con gli anni di carcere per i singoli agenti quanto piuttosto con il riconoscimento di quello che era avvenuto quella mattina e quanto Lino, Patrizia e con loro migliaia di persone dicevano da anni: che un ragazzo era stato ucciso da quattro agenti di polizia in servizio. E che questo delitto non poteva essere coperto dallo Stato.

Nel 2017 tre ragazzi della curva del Parma sono stati sanzionati perché allo stadio avevano esposto una “coreografia non autorizzata”, ovvero la gigantografia di Federico Aldrovandi. I tifosi del Parma avevano risposto all’iniziativa lanciata da ACAD, Associazione Contro gli Abusi in Divisa, che chiedeva a tutti i tifosi d’Italia di inondare gli stadi con le immagini di Federico. L’iniziativa nasceva come reazione al divieto imposto ai tifosi della Spal, avvenuto all’interno dello Stadio Olimpico di Roma, di introdurre l’immagine raffigurante il volto di Aldrovandi. 

«Ricordare le vittime di quel male irreversibile “causato”, - scrisse proprio nel 2017 Lino Aldrovandi - non sarà mai sinonimo di violenza, ma monito a richiamare al rispetto della vita di ognuno di noi, da parte di chi quella vita, quando chiamato in causa, abbia l'onere ed il privilegio di averla in consegna». 

La morte di Aldrovandi, così simbolicamente parte di molte delle successive lotte per la giustizia, è stata centrale anche nel dibattito politico di dieci anni dopo, quello che portò all’approvazione della legge sulla tortura. Una legge che nella sua formulazione finale non ha soddisfatto i suoi stessi promotori, ma che resta comunque un segnale, seppur tardivo. Eppure, sarebbero ancora molte le norme necessarie e che le organizzazioni per i diritti chiedono da anni, come l'introduzione del codice identificativo delle forze di polizia. Commenta Calderone:

  • “La norma da sola non può cambiare una cultura radicata. Ma, evidentemente, non possiamo non dirci che la cultura passa anche attraverso dei punti fermi che vengono dichiarati e fatti rispettare. Introdurre il codice identificativo per le forze di polizia non basterebbe di per sé a evitare episodi simili. Detto ciò, uno degli effetti dell’introduzione della legge sulla tortura è che molte persone – per esempio all’interno degli istituti penitenziari – si sentono più tutelate nel denunciare. Questo non significa che fatti gravi non succedano più – ne è un esempio quanto accaduto nel 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - ma quella legge ha comunicato che anche persone che si sentono in una condizione di sudditanza possono reagire alle violenze subite. È un primo passo verso quel cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno. La norma ha bisogno di essere accompagnata da interventi formativi rivolti alle forze di polizia”.

E quella mobilitazione non si è mai fermata. L’immagine negli stadi, nei cortei, le manifestazioni e gli eventi in tutti questi anni, quelli che lo ricordano quest’anno nel ventennale. E proprio quest’anno i suoi amici di allora hanno ricostituito il Comitato Federico Aldrovandi 2005-2025 , per portare di città in città il ricordo e la lotta che ne è seguita. Perché dopo vent’anni di abusi di polizia ancora si muore, afferma Boldrini, e perché quella storia ancora poteva raccontarci molto. “Quello che vogliamo fare è coinvolgere i più giovani, perché Federico aveva pur sempre 18 anni. E’ giusto che a ricordarlo siamo noi, o la generazione dei suoi genitori, ma è importante che questa storia diventi memoria per chi è più piccolo”.

Nonostante Ferrara abbia ora una giunta a trazione leghista, ricorda Boldrini, la solidarietà attorno a questa vicenda non si è arrestata, anzi, è diventata ancora più trasversale. In questo senso è importante ricordare che quest’anno proprio lì dove Federico fu ucciso, al Parco dell’Ippodromo, sarà inaugurata una targa con su scritto Giardino Federico Aldrovandi.

“La mobilitazione per Federico - conclude Calderone - ci aiuta a credere che ha senso portare avanti collettivamente istanze per i diritti che ci spettano. L’arroganza del potere politico nel valutare più importante la tutela della proprietà privata rispetto al diritto all’abitare, o la pretesa di decoro rispetto all’uguaglianza sociale è un’arroganza che può e deve essere messa in discussione. Federico ci dice che tutto il dolore che si sopporta quando si sta dentro a queste cose, quando si decide di vederle e di non chiudere gli occhi, ci restituisce una forza inimmaginabile”.

Quest’estate, durante una delle tante iniziative per Federico, all’Acrobax a Roma, è arrivato un ragazzo alto, dalle spalle larghe e dal passo sicuro. Era un tifoso della Roma e teneva tra le mani quello che sembrava un piccolo lenzuolo piegato con cura, quasi stirato. Prima che iniziasse il dibattito si è avvicinato proprio ad Andrea Boldrini: «Questa è l’immagine di Federico che anno dopo anno abbiamo portato in curva. Non c’è stato un anno in cui non l’abbiamo portato con noi. Ve lo porto perché credo sia giusto, oggi, darlo a voi, darlo a Patrizia e a Lino, riportarlo a Ferrara, dove tutto è iniziato».

share