Reportage dalle linee ucraine sul fronte di pokrovsk.Tra i soldati un blando proliferare di magliette, mostrine e adesivi che si ispirano al III Reich
«Ma capite che così ci fate solo cattiva pubblicità? I giornalisti vedono quei simboli e ci etichettano tutti come nazisti». Irina prova a far ragionare il tenente Vanka, ufficiale di un’unità di dronisti di stanza a pochi chilometri da Pokrovsk. Ci hanno accolto molto cordialmente con tè e caffè e insistono affinché rimaniamo per cena. Dima, una montagna umana con la faccia da pitbull, ridacchia. Ha i capelli rasati da jarhead, come dicono in inglese, un doppio taglio molto alto con un’isola un po’ più folta sullo scalpo e tutto intorno la rasatura a pelle. Sotto il collo una maglietta con l’aquila della Wehrmacht e la scritta, in caratteri gotici, «Ucraina fino alla vittoria». Racconta che era un lottatore di Mma e un ultras dei Kharkiv Metalist, si vanta delle risse organizzate alle quali (prima della guerra) partecipava con entusiasmo, perché alla fine «era un confronto onesto, fra uomini». Vanka invece è serafico, ha l’aspetto tranquillo, un fisico non particolarmente sportivo, uno sguardo che si direbbe bonario e i modi educati di chi ha studiato tutta la vita e poi ha lavorato come ingegnere. Ride ai racconti di Dima sulle faide contro gli ultras della Dinamo Kiev e del Mykolayiv e intanto continua a parlare con Irina, che traduce ma non tutto: «In Europa occidentale non capiscono che c’è una differenza tra nazional-socialismo e nazismo: uno è per la patria, l’altro è quello che conosciamo, contro gli ebrei ecc».
Irina lo guarda perplessa e obietta che una tale distinzione non esiste da nessuna parte. Ma il tenente insiste come se fosse una disputa tra dotti, non si scompone neanche quando Dima, con l’evidente scopo di provocare, carica da Youtube la marcetta delle SS. «Dima!» lo apostrofa dopo un po’, «io lo so che scherzi, ma i nostri ospiti potrebbero fraintendere». La serata passa tra i racconti delle imprese belliche che la squadra ha compiuto grazie ai droni, con i video – che Vanka ci tiene a mostrarci – dei soldati russi ripresi dai velivoli mentre si accorgono che la morte sta arrivando. Si uniscono anche altri membri della squadra, esultano come fosse un gol quando le immagini accelerano e, infine, si disfanno in un quadro grigio/nero confuso. Quelli sono i momenti dell’esplosione. A volte c’è anche un secondo drone, magari di supporto o di ricognizione, che riprende i risultati del primo attacco e in quei casi Vanka non lesina particolari sui mezzi distrutti, i nemici «neutralizzati» e Dima interviene con insulti di vario tipo che vanno dalle madri dei malcapitati ai russi come popolo fino a Putin.
Si tenga sempre a mente che la scena appena raccontata sarebbe stata molto simile dall’altro lato del fronte, o altrove. La trama è sempre la stessa: la guerra raccoglie e avvicina una serie di personaggi che anche nella vita in pace covavano dentro quella violenza che poi, sul campo di battaglia, trova un canale legale e morale per esprimersi. Oppure trasforma e guasta quelle nature che non hanno gli strumenti sufficienti a difendersi dall’assalto quotidiano alla propria umanità. Gli stessi video che Dima ci ha mostrato si possono trovare su internet ripresi dal lato russo, con gli stessi commenti in sottofondo.
Tuttavia chiunque frequenti il Donbass in questi mesi non può non notare un aumento della quantità di simboli che rimandano al III Reich o, perlomeno, a un’estetica gotica molto ammiccante a quella dei nazisti. Magliette, mostrine e adesivi si sono moltiplicati. Capita di vederli sull’uniforme di un pingue ragazzino dal volto ancora roseo per il troppo mangiare e dall’aspetto di chi è appena uscito dalla casa di mamma. O sul braccio degli uomini di mezza età che li comprano in uno degli innumerevoli negozi di articoli militari che sono nati dall’invasione russa a oggi. A volte c’è scritto solo «Ucraina», altre si richiamano simboli runici (l’antica Ucraina delle tribù pagane come ci hanno spiegato), altre ancora c’è il teschio delle Schutzstaffel o il piccolo simbolo SS in bianco su sfondo nero. Non si tratta neanche lontanamente della maggioranza dei militari, ma prima non si vedevano quasi per niente.
In questo blando proliferare di rimandi alla Germania nazista ci sono aspetti che vanno oltre la semplicistica catalogazione che ancora si fa in Europa dell’esercito ucraino fatto da estremisti di destra (ma in quale esercito del mondo non si troverà una schiacciante maggioranza di soldati definibili di destra?). Primo: se c’è un abbandono a tale estetica ora che la guerra sul campo va male, gli uomini sono pochi e le armi scarseggiano, e non prima, vuol dire che lo scoramento generale e la necessità di una maschera di guerra più aggressiva sono legati. Due: i nazisti combatterono contro l’Unione sovietica e per quanto possa sembrare ignorante, riduttivo o idiota semplificare il mondo (e la storia) così, vale il principio che il nemico del mio nemico è più o meno dalla mia parte. Anche Stepan Bandera e le sue squadre si schierarono con Hitler per cercare di affrancarsi dalla dominazione sovietica, con la fine che ben conosciamo. Bandera è il ritratto più presente sulle auto militari, ai posti di blocco o sugli strap delle uniformi. E la maggior parte degli ucraini che abbiamo conosciuto in questi anni lo vedono più come un indipendentista che come un simbolo politico. Tre: il cameratismo tra i soldati ha un ruolo preminente, diventa prima “spirito di squadra”, poi “fratellanza”, fino al conformismo più smaccato. Quattro: gli ufficiali hanno altro a cui pensare: sanzionare la truppa perché indossa determinati simboli è probabilmente considerata una perdita di guerra. Che si vestano come vogliono, basta che combattano.
In ultima analisi, ora che l’Occidente è percepito più lontano, forse dopo Trump addirittura come traditore, anche i simboli sono cambiati: le frasi sarcastiche, i personaggi dei cartoni animati giapponesi o le figurine scaramantiche hanno lasciato il posto all’unica certezza della guerra: la necessità di distruggere.
19/12/2024
da Il Manifesto