Sono stati i numeri ad affossare Joe Biden e saranno ancora i numeri (dei sondaggi) a dirci se a Chicago, alla Convention del Partito Democratico, Kamala Harris riceverà veramente la nomination come nuova sfidante per la Casa Bianca. Quello che c’è dietro, però, è una vicenda quasi da saga dinastica medievale, dove la supponenza e la tracotanza si mischiano con rivalità, egoismi e intrighi di Palazzo.
Prima l’assedio a Joe Biden
La galassia della stampa americana, che non si ferma certo ai pur prestigiosi New York Times e Washington Post, è piena di ricostruzioni velenose, ‘spifferi’ e mezze verità che lasciano sconcertati. Philip Wegmann, di RealClearPolitics, a proposito di Biden scrive che «nemmeno la sua uscita è stata gestita in modo pulito. Ha annunciato alle 13,46 di domenica che non si sarebbe ricandidato. Ma non ha sostenuto la Harris, come candidata democratica, fino alle 14,13. Sono trascorsi 27 minuti in cui i democratici non solo sono stati gettati nell’incertezza, ma in cui non era nemmeno chiaro cosa Biden avrebbe fatto con il suo capitale politico di voti rimanente». Insomma, c’è stato bisogno di un secondo comunicato di emergenza. Chi lo ha preteso?
L’ultima gaffe, tra partito e Paese
C’è poi il ‘giallo’ della nota ufficiale, con un inciampo non di poco conto, che già i Repubblicani fanno impietosamente notare. Il Presidente, infatti, ha scritto: «E sebbene fosse mia intenzione perseguire la rielezione, credo che sia nel miglior interesse del mio partito e del Paese che mi dimetta e mi concentri esclusivamente sull’adempimento dei miei doveri di Presidente, per il resto del mio mandato». Lo strafalcione istituzionale è macroscopico: ha messo il partito prima del Paese. E non è cosa da poco.
Adesso, ‘si salvi chi può’
La rivolta contro Biden, nel Partito Democratico, era già strisciante da un pezzo, ma è diventata aperta dopo il dibattito alla CNN. I sondaggi hanno mostrato, questo è il punto, che oltre alla Casa Bianca, si rischia di perdere anche Camera e Senato. Una cosa che consegnerebbe nelle mani di Donald Trump uno strapotere istituzionale difficilmente arginabile, visto che anche la Corte Suprema ha un imprinting conservatore. Oggi Kamala Harris serve a guadagnare tempo, in vista del 18 agosto a Chicago. Attenzione però: la partita per la nomination è appena cominciata e non è detto che finisca per come ce l’hanno raccontata. Ci sono problemi procedurali da superare ed eventuali ricorsi su ipotetici finanziamenti ‘impropri’ da parare. I legali democratici stanno studiando come muoversi. Poi c’è l’immagine dell’etica democratica, dei contenuti e dei programmi.
Quali programmi di governo della Harris?
Gli elettori delle primarie hanno votato per Biden, non solo come persona, ma anche e soprattutto per i suoi programmi. La Harris che fa, li fotocopia? Sono domande che si fanno anche i maggiorenti del partito, che per ora non si esprimono. Il Wall Street Journal li dà tutti schierati contro Kamala Harris, nell’attesa di tirare fuori dal cilindro il coniglio giusto. Stiamo parlando di Barack Obama, Chuck Schumer (capogruppo al Senato) e Hakeem Jeffries (capogruppo alla Camera). Cioè, per capirci, di chi tiene veramente in mano le leve del Partito Democratico americano. Stanno tutti aspettando di vedere come si muoveranno i bussolotti dei numeri, per decidere il destino di Kamala. E, fidatevi, i ‘polls’ americani vanno pesati col bilancino del farmacista. E disaggregati.
I numeri, ma quelli che contano
Dire che Trump adesso, su scala nazionale, è avanti di 1,9 punti non significa niente. Quelli che contano sono gli ‘swing-states’, gli Stati oscillanti, come il Michigan o la Pennsylvania. Dove Trump (ma soprattutto Vance) cammina spedito. Sono gli Stati dell’ex ‘Muro blu’ operaio dei democratici. Passati in massa, incredibile ma vero, ai repubblicani. D’altro canto, la Harris, in 24 ore, ha raccolto 50 milioni di dollari dai grandi donatori capitalisti di Wall Street. Che si sia girato il mondo sottosopra?
23/07/2024
da Remocontro