Cosa c’è dietro le proteste? La carenza di politiche sociali, ma pure di sindacati, partiti e organizzazioni religiose dove incanalare il malessere dei giovani. «I figli di immigrati non si sentono francesi. Hanno il mito dell’Africa. Ce l’hanno con Parigi perché non li ha tirati fuori dalla povertà». L’analisi del prof di sociologia delle migrazioni Ambrosini.
Una settimana esatta dopo la morte di Nahel Merzouk, 17 anni, ucciso il 27 giugno nella banlieue parigina di Nanterre da un poliziotto con un colpo di pistola durante un controllo stradale, in Francia sembra essere tornata la calma. Almeno per ora. Per giorni le proteste contro la polizia avevano portato in piazza migliaia di persone in tutto il Paese. Restano ancora evidenti i segni delle devastazioni, dei saccheggi, degli incendi. E si fanno i conti: oltre 4 mila auto andate a fuoco, centinaia di negozi saccheggiati, 3.300 arresti, in gran parte di ragazzi minorenni, e un morto. Oltre ai fatti e ai numeri rimane, però, aperto un interrogativo: perché?
Una storia già vista, come le rivolte esplose nel 2005
«In Francia esiste un problema tra la promessa di uguaglianza, l’égalité, e la realtà». Chi parla a Lettera43 è Maurizio Ambrosini, professore di sociologia delle migrazioni all’Università statale di Milano. Conosce molto bene la realtà francese perché insegna all’Università di Nizza e per anni ha tenuto corsi a Sciences Po a Parigi. Ciò che è accaduto in questi giorni è una storia già vista. Basta fare un passo indietro di 18 anni. Nel 2005 la rivolta esplose a Clichy-sous-Bois, a nord di Parigi, poche ore dopo che due adolescenti, Zyed Benna e Bouna Traoré, morirono fulminati all’interno di una centralina elettrica nella quale si erano rifugiati per scappare dalla polizia. Ieri come oggi tutto ruota intorno a una parola: sobborgo, in francese banlieue.
I giovani senza scuola, sfruttati e mal pagati, delinquono
«Originariamente», spiega Ambrosini, «erano state progettate e abitate dalla classe medio-bassa francese, soprattutto operai. Con la crisi industriale degli Anni 80 e la fine del colonialismo, sono arrivate comunità di migranti molto poveri e i francesi se ne sono andati». Quarant’anni dopo la frattura tra il centro e la periferia, tra il benessere e la povertà è sempre più grande: «In questi decenni si sono spesi tanti soldi per costruire scuole, biblioteche, auditorium, per ristrutturare palazzi, aumentare e migliorare i trasporti, ma ci si è dimenticati di investire in politiche sociali. Chi vive nelle banlieue ha spesso lavori precari, sfruttati e mal pagati. I giovani il più delle volte non riescono a finire la scuola e finiscono per delinquere».
Un problema di discriminazione sociale, ma pure razziale
Discriminazioni sociali a cui si aggiungono anche quelle razziali, soprattutto nella percezione di chi le subisce. Nell’ultimo rapporto del Consiglio francese rappresentativo delle associazioni delle persone nere, il 91 per cento degli intervistati ha dichiarato di essere stata vittima di discriminazioni razziale. Secondo Ambrosini è «inutile negarlo, la Francia ha un problema con le minoranze nordafricane. Le discriminazioni ci sono, ma non si vedono e non si combattono adeguatamente».
Sono nati in Francia, ma non si sentono francesi. Hanno il mito dell’Africa e pensano di essere stati traditi dalla Nazione che non li ha tirati fuori dalla povertà
Tutto questo non ha fatto altro che alimentare una frattura nella frattura. Quella tra i francesi frutto dell’immigrazione e i francesi e basta, i bianchi per intenderci. Come ha scritto Stefano Montefiori sul Corriere, il modello universalista francese (quali siano le tue origini, sei destinato a fonderti nello stampo francese) sembra essere entrato in crisi: «Siamo ormai», continua Ambrosini, «alla terza e quarta generazione di figli di immigrati. Sono nati in Francia, ma non si sentono francesi. Hanno il mito dell’Africa e pensano di essere stati traditi dalla Nazione che non li ha tirati fuori dalla povertà e non ha mantenuto le promesse di riscatto sociale rispetto ai padri e alle madri».
Servono organizzazioni anche religiose per dare sfogo alla rabbia
Ed è in questo vuoto di rappresentanza che si inserisce il tema della religione. Al funerale di Nahel molti ragazzi indossavano la tunica islamica come simbolo di un’appartenenza. Secondo l’ex premier francese il socialista Manuel Valls, intervistato dal Corriere, «la Francia è in crisi di autorità e l’islam ha un ruolo importante, forse eccessivo». Tesi che non trova d’accordo Ambrosini: «Io penso invece che sia necessario aumentare la presenza di strutture intermedie, come sindacati, partiti e anche organizzazioni religiose, proprio per trovare luoghi in cui la rabbia, soprattutto dei giovani, possa trovare uno sfogo non violento».
Chi ci guadagna in termini di consenso? Marine Le Pen
La violenza, appunto. Argomento che non si può eludere perché le immagini che sono arrivate da Parigi e da Marsiglia hanno più volte dato il senso di un limite superato. Il filosofo francese Pascal Bruckner, intervistato da La Stampa, sostiene che parte delle rivolte siano state armate e finanziate da bande criminali: «Essendo forme di protesta senza partito», aggiunge Ambrosini, «è probabile che abbiano trovato spazio anche fenomeni criminali». E così, mentre il presidente francese Emmanuel Macron, in nome dello Stato, ha provato a fare la voce grossa prendendosela con i social e invitando le famiglie a tenere a casa i minorenni, le opposizioni hanno organizzato ronde neofasciste a caccia dei manifestanti e istituito raccolte fondi per il poliziotto che ha sparato, in grado di raccogliere oltre un milione di euro: «I cittadini», conclude Ambrosini, «insoddisfatti rancorosi e probabilmente orripilati dalle rivolti giovanili di questi giorni, guarderanno con interesse soprattutto a Marine Le Pen. Il clima anti-istituzionale e di insoddisfazione politica profonda finirà per far crescere solo i suoi consensi».
06/07/2023
da Lettera 43