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Fukushima, via libera a inquinare l’Oceano. In Italia 42 siti contaminati e pericolosi

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Partiamo dal lontano Giappone nell’illusione di non essere gli ultimi. Pubblicate le conclusioni dell’agenzia atomica: in mare finiranno 1,3 milioni di tonnellate di acqua radioattiva di Fukushima, ma per l’Aiea l’effetto sarà «trascurabile». Ma in casa nostra accade anche peggio.
Metalli, diossine, idrocarburi: 42 siti contaminati e pericolosi. Sono i Siti di interesse nazionale (Sin). Il Rapporto del ministero della Salute: in quattro anni 1.668 decessi in più rispetto a quelli attesi.
Impegni governativi ‘alla giapponese’. Scarica in mare o ‘scarica barile’.

Giappone, Fukushima

«Impatto trascurabile sull’ambiente» afferma il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica , l’argentino Rafael Grossi assumendosi una grave responsabilità. Ha dato il via libera allo svuotamento in mare, l’Oceano Pacifico, di 1,3 milioni di tonnellate di acqua di raffreddamento accumulata nel tentativo di impedire la fusione del combustibile atomico nei reattori in avaria dallo tsunami seguito al sisma dell’11 marzo 2011 (triplice catastrofe: terremoto di magnitudo 9.0, tsunami di eccezionale potenza e altezza, fuoriuscita di radiazioni ai reattori). Sostenendo che «i piani di smaltimento sono in linea con gli standard di sicurezza internazionali e che avranno un effetto radiologico trascurabile su popolazione e ambiente».

Sashimi ‘radiologico trascurabile’?

Ora manca solo il permesso dell’authority giapponese per la sicurezza nucleare e la fine della costruzione del tunnel sottomarino lungo un chilometro che porterà l’acqua dalla centrale verso la vasca al largo dove avverrà il filtraggio definitivo prima dell’espulsione. Dopo di che ‘sashimi’ moderatamente radioattivo per tutti? La popolazione locale teme forti ripercussioni sulla pesca assieme a CinaCoree e Russia che condividono le stesse aree marittime col Giappone. Il ministero degli Esteri cinese, da parte sua, non solo ha accusato Tokyo di avere ignorato le preoccupazioni internazionali, ma di volere «usare l’Oceano come una fogna».

Per le nostre bombe ambientali solo ‘scarica barile’

«Metalli pesanti, diossine, idrocarburi, solventi: in Italia esistono alcune zone delimitate, 42 per la precisione, sparse da Nord a Sud, in cui la presenza di questi contaminanti è fuori scala, al punto da essere considerate pericolose per la popolazione e per questo motivo soggette a trattamenti particolari da parte del Ministero dell’Ambiente», avverte Massimiliano Cassano su Avvenire. Ed il colpo finale sulla salute di chi in quegli ambienti avvelenati è costretto a vivere lo confessa il Ministero della Salute: in quattro anni 1.668 decessi in più rispetto a quelli attesi.

Sesto rapporto dello studio Sentieri, progetto finanziato dal ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, stima che in loro prossimità ogni anno tra il 2013 e il 2017 ci sono stati 1.668 decessi in più rispetto a quelli attesi.

Tumori, prima i neonati

La mortalità per tumori è risultata in eccesso del 4% tra gli uomini e del 3% tra le donne, e anche i ricoveri in ospedale in età pediatrica e giovanile hanno fatto registrare numeri preoccupanti, con un’incidenza più alta dell’8% nel primo anno di vita. Dei veri e propri hotspot massivamente inquinati, individuati a partire dal 1998 attraverso norme di varia natura, tra cui leggi in materia ambientale, leggi di bilancio, decreti ministeriali, la cui supervisione è ora affidata al ministero dell’Ambiente. Inizialmente i Sin erano 57, per ridurli, in attesa di costoso risanamento, decidi ‘sconti di legge’. Modifiche ai ‘criteri di individuazione’, e nel 2012 il numero è sceso a 39. E’ stata la magistratura, in alcuni casi di ‘sconti’ clamorosi, a dover intervenire.

La piaga Ilva e Taranto

«Tra i casi di maggiore risalto mediatico c’è senza dubbio quello di Taranto, che si estende intorno all’ex Ilva, dove dipendenti e cittadini sono stati per anni esposti a elementi cancerogeni tra cui ferro, ossidi di ferro, arsenico, piombo, vanadio, nichel e cromo». Le attività di bonifica e di ripristino ambientale disposte dal ministero riguardano le aree industriali, gli specchi marini del Mar Piccolo e quelli salmastri della Salina grande. In un report dello scorso anno il Relatore speciale delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, David R. Boyd, ha inserito quell’area tra i luoghi più degradati in Europa occidentale, denunciando ritardi nelle operazioni di bonifica.

Ma per alcune questioni burocratiche legate al sequestro dei fondi del Gruppo Riva, che nel 1995 assunse il controllo dell’acciaieria, gli interventi non sono ancora iniziati.

Ex Montedison di Falconara

«Letteralmente sulle ceneri di un altro stabilimento di un importante gruppo industriale operativo in Italia, l’ex Montedison, sorge invece il Sin di Falconara Marittima, nelle Marche». Allora la produzione di concimi fosfatici, e oggi in parte del litorale e anche in acqua sono stati trovati rifiuti costituiti da ceneri di pirite e residui fosfatici. Ma gli ‘agenti inquinanti’ oltre al mare, possono finire anche nelle ‘acque di falda’, come nel caso del Sin di Napoli Bagnoli, dove sono stati trovati valori pericolosi di idrocarburi e metalli come ferro, manganese e in rari casi nichel. Nel sito le attività produttive erano iniziate nel 1853, ma la svolta è arrivata nel 1905, con l’avvio della costruzione dell’Impianto siderurgico Ilva di Bagnoli. Dal 1936 per due anni in quella stessa area è stato attivo anche l’impianto Eternit, amianto.

170 mila ettari avvelenati ma la bonifica attende

I 42 Sin certificati hanno un’estensione di circa 170mila ettari a terra – lo 0,57% della superficie del Paese – e 78mila in mare. Non è poco. La legge dispone che i Sin vengano sottoposti a bonifica, anche se queste avvengono ‘spesso/sempre’, con grave ritardo. Operazioni lunghe e costose, che impongono di muovere grandi porzioni di terreno e hanno bisogno di vaste aree di stoccaggio difficili da individuare. Se per motivi tecnici o di insostenibilità economica -o più diffusamente politica-, «le attività di bonifica non raggiungono i limiti di legge, è possibile chiedere una deroga, a patto di dimostrare che le concentrazioni residue non comportino rischi per la salute e per l’ambiente e di adottare precauzioni permanenti». Favole.

Chi inquina paga? Alla ‘giapponese’

Gli interventi non sono (non dovrebbero essere) a carico delle amministrazioni locali, ma sono i privati o le società ritenute responsabili dell’inquinamento al termine di processi civili e penali a farsi carico delle bonifiche, secondo la logica del ‘chi inquina paga’. Processi civili infiniti, e decenni dopo, società e proprietà ormai dissolte.

Quel che è certo è che a ‘pagare’, non direttamente in termini economici, è stata la popolazione delle aree intorno ai Sin, colpita da un’incidenza anomala di alcune malattie gravi e costretta all’allontanamento – forzato o volontario – per sfuggire al disastro ambientale.

05/07/2023

Abbiamo ripreso l'articolo

da Remocontro

Remocontro