19/10/2025
da Avvenire
L'acronimo Wcnsf segnala se un bambino ferito è sopravvissuto senza familiari. Unicef: sono 2.596 i piccoli rimasti senza entrambi i genitori, sono saltate tutte le reti di aiuto per l'infanzia
Appena cinque lettere. Un acronimo scarno, ma agghiacciante: Wcnsf (Wounded Child, No Surviving Family, ovvero “Bambino ferito, nessun familiare sopravvissuto”). Da alcuni mesi, a Gaza, gli operatori sanitari hanno cominciato a scriverlo sulle braccia degli orfani palestinesi per segnalare che sono sopravvissuti ai bombardamenti ma hanno perso tutto: genitori, fratelli, parenti. Non hanno più alcun familiare in vita. È un’etichetta di disperazione, un codice d’identità necessario a non perderli nel flusso continuo dei feriti e degli sfollati. Un segno sul braccio che nasce dal bisogno di ricordare chi sono, perché non c’è più nessuno che possa farlo per loro.
Secondo i dati Unicef aggiornati all’inizio di settembre, 2.596 bambini hanno perso entrambi i genitori mentre altri 53.724 sono rimasti orfani del padre o della madre. Ma dietro alla fredda contabilità delle cifre ci sono storie come quella di Wesam, tre anni, che il 13 agosto stava dormendo con i genitori, i nonni e il fratellino quando la loro casa di famiglia a Gaza City è stata bombardata. Wesam è l’unica sopravvissuta ma ha riportato gravi ferite alla gamba e all’addome, oltre a lesioni al fegato e a un rene. L’Unicef ha dichiarato che la bambina dovrebbe essere evacuata con urgenza all’estero per ricevere cure avanzate che le consentano di salvare la gamba sinistra dall’amputazione.
Gli operatori sanitari hanno sempre più difficoltà a fornire cure per le ferite fisiche dei bambini e con il crollo di gran parte delle istituzioni sociali, solo piccole reti comunitarie e gruppi umanitari continuano a prendersi cura dei bambini orfani o cercano di rintracciare eventuali parenti sopravvissuti. L’Ong britannica War Child è una delle poche organizzazioni umanitarie ancora presenti sul campo che ricevono chiamate dalle cliniche d’emergenza riguardo ai casi Wcnsf. I suoi assistenti sociali perlustrano i campi di sfollati alla ricerca di bambini non accompagnati e cercano di affidarli ad adulti disposti a prendersene cura. Ma è estremamente difficile trovare famiglie in grado di accogliere bambini in un contesto di grave carenza alimentare, e trasportare un bambino ferito è molto costoso.
«Questo è il primo scenario bellico che ha richiesto la creazione di un simile acronimo», ha spiegato Kieran King, responsabile di War Child. «Persino in Siria o Afghanistan, c’era quasi sempre qualcuno che si prendeva cura dei bambini. Qui, invece, non c’è più nessuno». Radeh, 13 anni, ha visto morire la madre davanti ai suoi occhi, colpita da un cecchino. Il padre era già morto. Da allora è silenziosa, schiva, tormentata da incubi e dolori allo stomaco. Vive in uno dei pochi centri sostenuti da War Child, dove riceve supporto psicologico. Il danno mentale inflitto a questa generazione di bambini a Gaza è incalcolabile. Soffre di incubi e insonnia anche Alma Jaarour, 12 anni, estratta viva alcuni mesi fa dalle macerie della sua casa. È l’unica superstite della sua famiglia. Nel bombardamento israeliano che ha distrutto il loro isolato a Gaza City ha perso i genitori e i fratelli, insieme a decine di altri parenti che si erano rifugiati insieme in un palazzo di cinque piani. Tra quel che resta delle rovine della Striscia, sono sempre più numerosi i ragazzini che rovistano tra i rifiuti alla ricerca di cibo o si ammassano nei punti di distribuzione degli aiuti, sfidando il rischio costante della ripresa dei bombardamenti. E mentre il mondo spera nella tenuta del cessate il fuoco e discute di corridoi umanitari, nelle cliniche da campo si accumulano le cartelle mediche con quella scritta: Wcnsf.