La notte del 24 ottobre, un attacco aereo israeliano ha strappato la vita di Hasan Suboh, un uomo che, pur non conoscendo direttamente, ha avuto un impatto profondo nella mia vita.
Hasan, che lavorava con Medici Senza Frontiere dal 2019, è stato ucciso mentre si trovava a casa di un parente a Khan Younis, nel sud di Gaza. Indossava il suo camice da lavoro, il simbolo della sua dedizione. La sua morte ha scosso tutti quelli che lo conoscevano, e oggi voglio ricordarlo come un uomo che ha incarnato la generosità del nostro popolo.
Hasan aveva 41 anni, una moglie e sette figli, e nei tredici mesi di genocidio a Gaza aveva dedicato ogni singolo giorno alla cura degli altri. Non era solo una figura centrale nella sua famiglia, ma anche un punto di riferimento fondamentale per la sua comunità. Non si limitava a lavorare; era anche colui che, con la sua macchina del lavoro, portava cibo, acqua e medicinali a chi viveva nelle tende e non poteva spostarsi.
Sempre in prima linea, anche quando il pericolo era costante e gli attacchi si facevano sempre più violenti. Non si fermava mai, affrontando ogni difficoltà con un sorriso che nascondeva la fatica. Hasan era l’uomo che faceva accadere le cose. L’uomo che, con ogni suo gesto, rendeva la vita più facile a chi ne aveva bisogno. Non si risparmiava mai. Si preoccupava non solo della sua famiglia, ma anche della sua famiglia allargata, che viveva nelle tende nel sud di Gaza. Sacrificava il tempo con i suoi figli, lavorando senza sosta, per assicurarsi che nessuno restasse senza l’essenziale. La sua disponibilità non conosceva limiti.