Corani bruciati, reggiseni appesi a un filo spinato, giocattoli mostrati come trofei, prigionieri fatti sfilare nudi. Le immagini condivise sui social da alcuni militari potrebbero essere considerate crimini di guerra. Atteggiamenti che l'Idf ufficialmente sanziona, ma che il sistema e l'ala più oltranzista del governo legittimano.
Biblioteche in fiamme. Un Corano gettato nel fuoco in una moschea di Rafah. Biancheria intima mostrata come trofeo. Palazzi distrutti al grido di «soffrirete ogni secondo per quello che ci avete fatto… Morirete». Ma anche prigionieri nudi fatti sfilare tra le macerie. Sono le foto e i video pubblicati da alcuni soldati israeliani su TikTok e Instagram, alcuni dei quali, individuati dal giornalista palestinese Younis Tirawi, collaboratore della Ong Bellingcat, sono stati visualizzati milioni di volte.
Immagini e video che riportano alla memoria gli abusi e le torture di Abu Ghraib
L’umiliazione del nemico – che in questo caso non sono i leader di Hamas, né i guerriglieri ma donne e uomini di Gaza – usata per vendicarsi del massacro del 7 ottobre. Immagini scioccanti che riportano alla memoria le foto delle torture perpetrate dai soldati e dai contractor Usa nel carcere di Abu Ghraib, vicino a Baghdad. Mostrate per la prima volta il 28 aprile 2004 dal programma della Cbs 60 minutes fecero il giro del mondo danneggiando pesantemente l’immagine non solo dell’esercito ‘liberatore’ ma anche quella dell’allora presidente George W. Bush. La Casa Bianca tentò, inutilmente, di correre ai ripari dipingendo quegli abusi come “incidenti isolati”. Allo stesso modo l’Idf parla di «incidenti eccezionali» che «saranno gestiti di conseguenza». A Franceinfo, l’esercito israeliano ha anche assicurato che nel casi in cui si raffigurassero reati, la polizia è pronta ad aprire una indagine, ricordando però che non intende commentare questo genere di contenuti, e che in ogni modo la distruzione di moschee ed edifici «è autorizzata per obiettivi militari».
La distruzione totale, l’autodafè, la furia e l’umiliazione del nemico, tanto più se esibiti al mondo, non possono essere derubricati a “obiettivo militare”. Rischiano invece di essere «un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità», ha spiegato a FranceInfo Luke Moffett, professore alla Queen’s University di Belfast, specialista in diritto internazionale umanitario. Le Convenzioni di Ginevra, ratificate da Israele, vietano «qualsiasi atto di ostilità» contro monumenti storici, opere d’arte o luoghi di culto. Lo stesso vale per le Nazioni Unite: «Attaccare o bombardare, con qualsiasi mezzo, città, villaggi, case o edifici che non sono difesi e che non costituiscono obiettivi militari» sono da considerarsi crimini di guerra.
Se la guerra diventa un videogame o un party
Nei video postati dai soldati israeliani la guerra diventa un videogame o, peggio, un party. Così accade che un soldato in mimetica faccia girare dischi come un dj tra le rovine, trasformando le macerie in una discoteca. «Voglio condividere con voi un piccolo assaggio del party che si farà a Gaza», recita la didascalia. «Nella gioia, nella fede, nell’amore e nell’unità vinceremo. Condividete affinché tutto il mondo sappia quanto siamo forti e uniti».
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In un altro video un militare israeliano scrive sulla lavagna di una scuola palestinese un messaggio in ebraico: «La lezione di arabo è finita», ride auspicando il ritorno dei coloni nella Striscia.
Un soldato israeliano in una scuola palestinese distrutta.
Il repertorio sui social è vario: si va dai soldati che giocano d’azzardo in una casa distrutta alle foto di gruppo sorridenti con in mano giocattoli e fucili d’assalto.
Soldati israeliani in posa con giocattoli (da X Younis Tirawi).
Altri mostrano orgogliosi il ‘bottino’: collane «made in Gaza», orologi, biancheria e addirittura un miliare che se ne va con una cyclette sulle spalle: «Vendetta e bici da allenamento». Se il saccheggio fosse dimostrato saremmo davanti a un crimine di guerra, esattamente come accaduto in molti paesi ucraini presi dall’esercito russo.
Oltre a foto di distruzione, in Rete circolano, anche se meno frequenti, scatti con prigionieri nudi in fila. Anche in questo caso, come ricorda Moffett, si tratta potenzialmente di un crimine di guerra come sancito dalle Convenzioni di Ginevra che vietano «oltraggi alla dignità personale, compresi i trattamenti umilianti e degradanti» in particolare per i civili e più in generale chi non partecipa attivamente alle ostilità, compresi dunque i prigionieri.
Filmati di questo tipo, spiega a Franceinfo Ori Givati, rappresentante della Ong israeliana Breaking the Silence fondata da ex soldati dell’Idf, ci sono sempre stati, ma mai di questa portata. Il 7 ottobre ha generato un tale choc nella società israeliana che tutti provano sentimenti di vendetta. «Il problema però», sottolinea Givati, «è quando questo sentimento si traduce in azione». Ciò accade anche perché è «il sistema che lo permette». A Gaza e in Cisgiordania è l’esercito israeliano che comanda. «L’occupazione ti fa questo effetto: quello di poter fare quello che vuoi», ammette l’ex soldato. La violenza è legittimata anche dall’ala più oltranzista del governo. Come ricorda Givati, dopo gli attacchi di Hamas, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha invitato a combattere gli «animali umani», mentre il premier Netanyahu ha invocato un versetto della Torah per designare il nemico giurato degli ebrei. Parole che compaiono nel dossier d’accusa di genocidio a Israele depositato dal Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia.
Perizomi sopra l’uniforme e reggiseni appesi al filo spinato: il machismo tossico dell’esercito
Colpisce poi il maschilismo tossico dei video. Tra le immagini postate su Instagram, c’è quella di un soldato che indossa un perizoma sopra l’uniforme. In un’altra si vede un filo spinato a cui sono appesi reggiseni.
Anche se i proprietari della biancheria non appaiono, si tratta comunque di un attentato alla loro privacy, un’umiliazione indiretta. E anche in questo caso, come ricorda Ardi Imseis, professore di diritto internazionale ed ex consulente legale dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, si tratta di «chiare violazioni del diritto internazionale».
L’esercito israeliano nel suo Codice etico condanna le violazioni dei diritti umani
Tutti atteggiamenti che l’esercito israeliano ufficialmente condanna. Dagli Anni 90 esiste un Codice etico nel quale l’Idf si impegna a preservare la dignità umana. Non solo: nel documento si ricorda che nessun soldato userà armi e potere per «danneggiare civili e prigionieri non coinvolti e farà di tutto (…) per evitare di nuocere alla loro vita, alla loro integrità fisica, alla loro dignità e alle loro proprietà». Principi calpestati dalle foto e dai video postati dai militari dell’Idf. Per il filosofo Asa Kasher, tra i redattori del Codice etico, tali comportamenti si spiegano in parte con i profili degli autori: sembrano infatti riservisti, tra i 18 e i 21 anni. Non soldati di professione, insomma. Questo però non li giustifica: «Sono responsabili delle loro unità e dunque possono essere ritenuti responsabili di queste azioni», mette in chiaro Kasher. Secondo uno studio della sociologa Orna Sasson-Levy, i militari di grado più basso – solitamente Mizrahim, cioè ebrei arabi – sono più propensi a sfidare l’autorità. E sono proprio i Mizrahim, scrive Middle East Eye, i più accaniti sostenitori delle politiche di Netanyahu. La guerra ha dato loro l’occasione di diventare patrioti e mostrare l’orgoglio di essere israeliani.
Il richiamo alle truppe per arginare gli abusi e la condanna della procura militare
Davanti al moltiplicarsi degli abusi, lo scorso febbraio il capo di Stato maggiore Herzi Halevi con una lettera ha richiamato all’ordine le truppe. «Ci comportiamo come esseri umani e, a differenza del nostro nemico, manteniamo la nostra umanità», ha ricordato. «Dobbiamo prestare attenzione a non usare la forza dove non è necessario, a distinguere un terrorista da chi non lo è, a non prendere nulla che non sia nostro – souvenir o armi – e a non filmare video di vendetta». Intanto la procuratrice generale militare Yifat Tomer-Yerushalmi ha denunciato «casi di condotta inaccettabile», citando «dichiarazioni inappropriate che incoraggiano fatti inaccettabili; uso ingiustificato della forza, anche contro i detenuti; saccheggi, che includono l’uso o la rimozione di proprietà privata per scopi non operativi; e distruzione di proprietà civili contrarie ai protocolli». Secondo il Times of Israel Tomer-Yerushalmi aveva dato il via a indagini. L’esercito sul suo sito nel 2016 si impegnava a prendere provvedimenti contro chiunque si discosti dal Codice etico e dagli standard richiesti. Sarà ancora così? I numeri sembrano suggerire il contrario. Secondo il sito Usa NPR, delle 1.260 denunce presentate a carico di soldati israeliani tra il 2017 e il 2021 per aver danneggiato cittadini palestinesi e le loro proprietà, solo 11 hanno dato luogo ad accuse formali. Meno dell’1 per cento.
04/06/202
da Lettera 43
Carli Francesca