Nonostante la recente tregua tra Israele e Iran mediata da Washington la situazione in Giordania, come in tutta la regione, rimane estremamente tesa. Circa il 30% della popolazione del Paese arabo è di origine palestinese, figlia della Nakba del ‘48 e dell’esodo derivante dall’occupazione israeliana del ‘67 e non accetta il silenzio imposto dal re
Amman- Dalla notte del dodici giugno ad Amman si respira un’aria di lenta attesa.
Il traffico è meno caotico del solito e il viavai dei bazar di downtown sembra essere ancora imbrigliato nel tempo dilatato delle giornate di festa in famiglia dell’Eid Al-Adha conclusa da poco. Il vociare di strada pare diradare in un cicaleccio ovattato e nei caffè dei quartieri più modaioli di Webde e Jabal Amman pochi ciuffi di persone si lasciano andare agli sbuffi di fumo dello shisha tra i tavolini dei marciapiedi. A rompere il tempo appeso a un filo riecheggiano i rombi ciclici delle sirene di allarme antiaereo fatte suonare dal gabinetto di sicurezza per segnalare il pericolo dei contrattacchi iraniani ai raid di Israele.
Fin dal primo intervento pilotato dal Mossad al cuore del potere di Teheran, le incursioni aeree dei Pasdaran verso Tel Aviv si sono fatte più o meno quotidiane e la maggior parte dei droni e missili sono stati puntualmente intercettati sullo spazio aereo del regno hashemita, dove la presenza delle forze armate statunitensi garantisce uno scudo per lo Stato ebraico. Ad oggi, i detriti delle intercettazioni balistiche hanno causato almeno cinque feriti nelle zone nord di Irbid, al confine con la Siria, e ovest tra le pianure di Azraq, a pochi chilometri dall’Arabia Saudita.
Nonostante la recente tregua tra Israele e Iran mediata da Washington la situazione in Giordania, come in tutta la regione, rimane estremamente tesa.
Circa il 30% della popolazione del Paese arabo è di origine palestinese, figlia della Nakba del ‘48 e dell’esodo derivante dall’occupazione israeliana del ‘67.
Nonostante il lassismo del governo di Amman di fronte all’imbarbarimento del fuoco su Gaza, fino ad oggi la stabilità del Paese è stata mantenuta grazie ad un intreccio di astuzia politica del re Abdullah II, formalmente a favore della causa palestinese e disposto a concedere spazi di protesta alla minoranza nel Paese, e di capacità di deterrenza data dalla situazione socioeconomica dei Paesi levantini circostanti, Libano e Siria in primis, sopraffatti dal potere militare di Israele.
Ad Amman le manifestazioni del venerdì dopo la preghiera di mezzogiorno hanno rappresentato per mesi una valvola di sfogo per centinaia di attivisti e attiviste della capitale strette nei lacci corti di una democrazia monarchica che sotto la superficie filo-occidentale nasconde uno dei sistemi di controllo politico più repressivi del Medio Oriente. (Dall’8 ottobre 2023, ogni settimana la moschea Hussein del centro città è diventata il ritrovo per centinaia di palestinesi-giordani costretti a vivere l’apice della violenza a Gaza e in Cisgiordania a distanza, schiacciati dalla consapevolezza di una rabbia sociale a cui non ha fatto da contrappunto alcuna soluzione concreta a livello istituzionale.
Senza bisogno di grandi proclami e chiamate alla piazza, formazioni diametralmente diverse riconducibili all’esodo palestinese, dal partito comunista ai movimenti islamici panarabi, hanno utilizzato la strada come cassa di risonanza per un malcontento ogni giorno crescente.
Almeno fino all’aprile 2025, quando è stato imposto il divieto di qualsiasi attività riconducibile ai Fratelli musulmani, il principale movimento conservatore di unità araba e braccio politico del primo partito di opposizione, il Fronte di azione islamico, accusato di pianificare attentati terroristici di destabilizzazione nel paese con il supporto di attori esterni, tra cui Hezbollah. Quest’azione, giunta al termine di una serie di indagini della Direzione per la pubblica sicurezza giordana, ha azzoppato la guida e il coordinamento dei gruppi di protesta. Da allora le marce del venerdì ad Amman sono state sospese e le iniziative di sostegno a Gaza represse duramente dai servizi di intelligence del Mukhabarat con l’accusa di affiliazione al movimento fondamentalista. Oggi questa situazione sembra cambiare.
Davanti all’ennesimo attacco verso un Paese terzo dell’esercito di Tel Aviv e l’inasprimento delle condizioni umanitarie nella Striscia di Gaza, il Forum nazionale per sostenere la resistenza e proteggere la patria ha indetto una nuova manifestazione a cui lo scorso 13 giugno hanno preso parte centinaia di attivisti e membri della comunità palestinese con la richiesta netta di un immediato intervento di Amman e dei Paesi arabi per fermare Netanyahu. Il ritorno in piazza dopo più di un mese di stop ha rappresentato il simbolo di una nuova rabbia, il sentore divenuto azione di una misura colma e pronta a esplodere. Ad accompagnare l’azione di strada, numerosi leader delle principali autorità tradizionali, specialmente nel sud del paese, hanno rilasciato dichiarazioni sui social media invitando il governo giordano a prendere una scelta finalmente chiara di solidarietà verso la popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania, sfidando il bavaglio digitale che impedisce qualsiasi critica online alla corona secondo la legge sul cyber crime del 2024.
Uno dei pericoli maggiori per la stabilità del Paese è costituito dalla potenziale riemersione di cellule eversive ‘dormienti’ affiliate allo Stato islamico presenti all’interno del territorio, capaci di sfruttare il supporto popolare con atti mirati di guerriglia armata come accaduto da ultimo nel dicembre del 2016 nella cittadina di Al-Karak.
Questo panorama interno estremamente instabile ha sicuramente inciso sui toni del discorso del re hashemita Abdallah II al Parlamento Europeo, segnato da una particolare decisione nella condanna all’imperialismo israeliano ed estremamente netto nel richiedere un immediato intervento coordinato per fermare Netanyahu.
“Se la nostra comunità globale non agisce con decisione, diventiamo complici della riscrittura di ciò che significa essere umanì” ha dichiarato il leader giordano nel discorso a braccio davanti al Parlamento di Strasburgo. “Perché se i bulldozer israeliani continuano a demolire illegalmente le case (…) anche i parapetti che definiscono la condotta morale verranno abbattuti. E ora, con l’espansione dell’offensiva israeliana all’Iran, non si sa dove finiranno i confini di questo campo di battaglia. Questa, amici miei, è una minaccia per le persone di tutto il mondo”.
Nelle parole di rinnovata durezza della corona giordana potrebbero nascondersi i semi di una nuova posizione del Paese all’interno dello scacchiere della regione. E, probabilmente, una delle poche possibilità concrete di contenere l’espansionismo di Tel Aviv, ora più che mai galvanizzato dal supporto incondizionato di Washington.
30/06/2025
da Left
Guglielmo Rapino attivista culturale e per i diritti umani