Nel Medio Oriente attuale puoi cambiare Paese, ma ti porti appresso sempre gli stessi problemi. Oggi si vota in Giordania e il momento scelto per fare le elezioni non poteva essere peggiore. Un paio di giorni fa, al valico di frontiera con la Cisgiordania occupata, un camionista appartenente a un’importante tribù del Regno ha aperto il fuoco, uccidendo tre guardie di sicurezza israeliane. L’uomo è stato a sua volta ucciso dai soldati dell’IDF presenti sul ponte di Allenby.
Terrorismo di chi?
L’attacco terroristico è arrivato al culmine di un paio di settimane di tensione, tra il governo di Tel Aviv e quello di Amman. In un duro comunicato emesso dall’ufficio del Ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi, le operazioni israeliane a Jenin, Tulkarem e Tubas sono state definite come “una barbara aggressione, una pericolosa escalation che va fermata”, con un invito rivolto alla comunità internazionale. In Giordania, la popolazione è già in fermento da tempo, disgustata dai massacri di Gaza e dagli attacchi dei coloni israeliani nei Territori occupati. Una situazione frustrante, a cui si aggiungono i danni collaterali subiti dall’economia, ormai in ginocchio. Oltre metà della popolazione è di origine palestinese e il senso di solidarietà viene dimostrato in qualsiasi occasione.
Dare, avere, lettera e testamento
Anche in un Paese storicamente alleato degli Stati Uniti, che si è adattato a praticare una politica di buon vicinato con lo Stato ebraico. Imposta dalle circostanze, è vero. Ma anche dagli interessi. In fondo, per fare un esempio, col patto “acqua-energia” il governo di Tel Aviv si è impegnato a fornire 200 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata, ogni anno, al Regno hascemita. In cambio, la Giordania deve invece cedere 600 Megawatt di energia proveniente dal solare. Non solo. Amman compra anche il gas naturale israeliano. Questo sentiero diplomatico, sviluppato pericolosamente sulla lama di un coltello da Re Abdullah II, è rischioso. Molto rischioso. Il sovrano filo-occidentale non può infatti dimenticare la cultura islamista di gran parte dei suoi cittadini. Già in ebollizione da mesi per la guerra di Gaza.
L’Islamic Action Front
E tra le formazioni più agguerrite, tra quelle che si presenteranno alle urne, ci sono proprio i fondamentalisti delle Islamic Action Front (IAF), una specie di succursale dei Fratelli Mussulmani. Secondo gli autorevoli specialisti britannici di Chatam House, i partiti islamici trarranno beneficio dalle elezioni, ma il rifacimento della legge elettorale (voluto dal Re) potrebbe “truccare” tutto. Basandosi sul gioco delle circoscrizioni, degli sbarramenti proporzionali risibili (all’1%) e sulla composizione delle liste, gli “ingegneri” istituzionali di Abdullah II hanno cercato di prevenire qualsiasi colpo in arrivo…. dal popolo. Non la pensano proprio così in Israele, dove il quotidiano Haaretz di Tel Aviv titola: “Un attacco mortale al confine tra Israele e Giordania potrebbe far finire il Re Abdullah in un campo minato politico”. Il problema è sempre lo stesso: il vertice della piramide può essere filo-occidentale, ma la base e il tronco del potere restano islamiste e difficilmente controllabili.
Washington Institute for Near East Policy
Lo testimonia, chiaramente, un sondaggio condotto dal Washington Institute for Near East Policy, il quale dice che in Giordania la percentuale di coloro che vedono “favorevolmente” Hamas, è passata dal 44% del 2020, all’85% del novembre-dicembre 2023. Cioè, dopo il massacro del 7 ottobre. Con il governo costretto a fare una gimkana diplomatica, per dare un’impressione di durezza ai propri cittadini (compreso il temporaneo ritiro dall’ambasciatore da Israele), ma nei fatti seguendo una linea di pragmatismo. Che però, per dirne una, non ha aiutato in vista delle elezioni, dato che Netanyahu non ha fatto altro che versare nuova benzina sulla Cisgiordania, esacerbando gli animi. Ma i guai di Gaza si ripercuotono soprattutto sull’economia. Il turismo (15% del Pil) per esempio è crollato, con un calo del fatturato intorno al 50% e una disoccupazione di settore al 22%. La produzione industriale è diminuita del 5% e i costi sono aumentati in proporzione a quelli di trasporto, anche per colpa del problema-Houthi nel Mar Rosso.
La rivoluzione, da Gaza alla fame
Il debito pubblico ha toccato i 56 miliardi di dollari, cioè il 115% del Pil. Ma ciò che fa più paura è l’immediato futuro finanziario. Secondo il Fondo monetario internazionale, la Giordania deve riuscire, presto, a ripagare rate di debito per altri 18 miliardi di dollari. La ricetta? Più tasse e meno sussidi per i poveri. Così, la rivoluzione (fortunatamente) non si farà per Gaza, ma rischia di scoppiare per la fame.