19/09/2025
da Remocontro
Sondaggio della Tv pubblica israeliana, se si votasse oggi Netanyahu se ne andrebbe a casa. I partiti dell’attuale minoranza in Parlamento si aggiudicherebbero ben 71 seggi su 120. Mentre la coalizione del Primo ministro ne otterrebbe solo 49.
Come cambierebbe il Parlamento
Il Likud sarebbe ancora il primo partito, ma si fermerebbe a 24 seggi, perdendone uno rispetto alle precedenti elezioni. Il secondo partito più numeroso nelle intenzioni di voto è quello di ‘Bennett 2026’, la formazione dell’ex Primo ministro Naftali Bennett, che potrebbe conquistare 21 seggi. Al terzo posto, il partito della diaspora russa, ‘Yisrael Beytenu’, guidato da Avigdor Lieberman, l’ex buttafuori moldavo (già ministro) che otterrebbe 11 seggi. A seguire, la sinistra (i Democratici), di Yair Golan, e il partito Yeshar, fondato pochi giorni fa dall’ex Capo di Stato Maggiore Gadi Eisenkot, che ottengono 10 seggi ciascuno. Inoltre, Yesh Atid (di Yair Lapid) e Shas (partito religioso di Aryeh Deri), mantengono ciascuno i loro 9 seggi, mentre United Torah Judaism, guidato da Yitzhak Goldknopf, ne ottiene 7. Infine, i partiti arabi Hadash-Ta’al e Ra’am (guidati da Mansour Abbas) prendono ognuno 5 seggi. L’estrema destra messianica di Otzma Yehudit prende anch’esso 5 seggi (due in meno rispetto alle elezioni precedenti), mentre Sionismo Religioso, il partito del ‘duro e puro’ Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, supera a malapena la soglia di sbarramento e ottiene 4 seggi. Clamorosamente sotto la soglia di sbarramento, invece, il Partito Blu e Bianco, capeggiato da Benny Gantz.
Il peggioramento dell’economia
«Nel sondaggio – scrive nel suo report Channel 12 – abbiamo chiesto informazioni sulla situazione economica e sul giudizio attribuito al governo in questo ambito. Secondo le risposte dei partecipanti, il 70% del campione totale ha attribuito al governo un giudizio negativo in ambito economico, rispetto al 27% che gli ha attribuito un giudizio positivo. Tra gli elettori della coalizione, il 51% ha attribuito al governo un giudizio positivo, rispetto al 45% che gli ha attribuito un giudizio negativo. Abbiamo anche chiesto – prosegue il report – come fosse cambiata la loro situazione finanziaria personale dalla formazione dell’attuale governo all’inizio del 2023. Solo il 7% ha affermato che la propria situazione finanziaria era migliorata, il 46% ha risposto che la propria situazione finanziaria era rimasta invariata e il 44% che era peggiorata. Tra gli elettori della coalizione, circa un quarto ha indicato che la propria situazione finanziaria era peggiorata dalla formazione del governo. Inoltre – conclude Channel 12 – molti cittadini sono pessimisti riguardo alla loro futura situazione economica. Secondo il sondaggio, solo il 18% stima che la propria situazione economica migliorerà entro un anno, rispetto al 22% che stima che la propria situazione non cambierà e al 39% che prevede un peggioramento. Il 21% ha risposto di non sapere come cambierà».
Guerra infinita per restare al potere
L’importanza del sondaggio è cruciale: esso spiega perché Netanyahu non chiuderà mai la guerra di Gaza. Non è solo una questione nazionalistica, né tantomeno ideologica o religiosa. No, prima lui dovrà avere la certezza di restare al potere, per dare la piega giusta anche a tutti i suoi guai, politici e giudiziari. E in una democrazia, quale si vanta di essere Israele almeno sulla carta, tutto questo si ottiene solo attraverso regolari elezioni. Almeno per la retta via. Anche se a volte capita che, per arrivare allo scopo, ci si possa ingegnare a percorrere scorciatoie molto discutibili. Certo, le elezioni hanno come scadenza naturale il 2026, ma il governo Netanyahu è nato già mezzo moribondo e, prima il tentativo di ‘colpo di Stato mascherato’ (con una proposta e controversa riforma della giustizia), poi il massacro del 7 ottobre perpetrato da Hamas, infine l’ecatombe di Gaza, hanno reso venefico il quadro politico interno. Insomma, in alcuni frangenti, specie l’anno scorso, ‘Bibi’ è rimasto al suo posto solo ed esclusivamente perché in Israele la democrazia è stata messa da parte, a favore di comportamenti da legge marziale e stato d’assedio. Fino a quando c’è in ballo la ‘sicurezza nazionale’, non si muove foglia e non si può rimettere in discussione (e nemmeno sotto inchiesta) la governance del Paese. Dovrebbe funzionare così. Ma, piano, perché invece il Premier in tribunale è di casa, e rischia pure grosso per un affaire di corruzione che lo coinvolge, noto come ‘Qatargate’.
Gaza e la campagna elettorale
In definitiva, per evitare guai più grossi e tenere la posizione, in un momento di popolarità in declino, Netanyahu ha puntato tutto su una ‘rappresaglia allargata’, a Gaza, che fosse la testa di ponte per regolare, una volta per tutte, i conti anche con Hezbollah, con Assad e con l’Iran. Obiettivo: realizzare il sogno biblico di un «Grande Israele, trasformarsi in una specie di Mosè in giacca e cravatta e, naturalmente, stravincere le prossime elezioni grazie a una travolgente ondata di popolarità. Ma forse l’ambizioso e cinico Netanyahu non ha mai letto «L’interpretazione dei sogni» di Sigmund Freud, se no avrebbe capito che la realtà, specie quella che riguarda la ricerca del consenso, ha poco a che fare con le sue oniriche aspettative. Molti israeliani sono patrioti, ma molti di più sono stanchi e cominciano ad averne abbastanza dell’elegia dell’eroismo e dei retorici richiami ai ‘sacrifici di sangue’.
Agli israeliani piace essere come Sparta?
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Il discorso ‘motivazionale’ fatto dal Premier l’altro giorno, nel quale paragonava lo Stato ebraico all’antica Sparta, non è che abbia scaldato più di tanto i cuore. Considerata poi la struttura sociale di quella città-fortezza, in cui gli abitanti non venivano educati per pensare, ma per combattere, la frustrazione aumenta. Se nel Terzo millennio, sulle sponde dello stesso mare che ha bagnato le coste dell’Attica, in cui si potevano incrociare gli sguardi di Aristotele e di Platone o ascoltare le parole di Socrate, Netanyahu propone invece al suo popolo di seguire il ‘modello Sparta’, allora Israele è veramente un Paese senza