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Gli orfani inconsolabili del libero scambio

Gli orfani inconsolabili del libero scambio

All’inizio di aprile sono entrati in vigore i nuovi dazi commerciali decisi dall’amministrazione Trump, ovvero un pacchetto piuttosto corposo di imposte sull’importazione di beni afferenti ad un numero ampio di settori merceologici, prodotti in vari paesi del mondo.

Una seconda ondata di aumenti sarebbe dovuta scattare nel volgere di pochi giorni, ma è stata poi all’improvviso sospesa per un periodo di 90 giorni (tutt’ora in vigore), durante il quale l’Amministrazione USA sta intavolando trattative con molti dei paesi coinvolti, tra cui l’Unione Europea. Restano in essere invece dazi molto alti sulle importazioni dalla Cina.

Per i paesi dell’Unione Europea, ad oggi, risultano in vigore dazi base al 10% su un numero amplissimo di prodotti, nonché dazi già varati nei mesi precedenti al 25% su acciaio, alluminio e automobili, a fronte di cui l’Unione aveva predisposto contro-dazi di entità pari a 22,6 miliardi. Questa contromisura, tuttavia, è stata sospesa una volta che Trump ha introdotto la proroga di 90 giorni, per favorire un negoziato tra le parti.

L’alternarsi di annunci e retromarce ha scosso i mercati finanziari, provocando forti oscillazioni e reazioni politiche. In Europa il dibattito sul tema è stato confuso e superficiale, ma ha evidenziato aspetti rilevanti.

Si è molto parlato molto dei motivi più importanti che avrebbero indotto il governo Trump a lanciare una linea protezionistica di politica commerciale: dall’esigenza di riequilibrare una bilancia commerciale cronicamente in deficit, al tentativo di rilocalizzare parte dell’enorme quota di produzione delocalizzata all’estero sul territorio statunitense, fino all’uso dei dazi come arma di trattativa e ricatto per ottenere altro.

Molto meno si è detto, e sempre in maniera superficiale e demagogica, dei profondi e radicati motivi che spiegano la diffusa ostilità e preoccupazione delle élite europee nei confronti di questa nuova fase delle relazioni commerciali internazionali. 

È doverosa su questo aspetto una breve premessa. I danni economici dei dazi statunitensi in Europa e in Italia, nel breve periodo, ci saranno e saranno direttamente proporzionali alla loro entità. La diminuzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti non potrà che causare una riduzione di domanda non immediatamente compensabile con altri mercati e quindi di produzione, specialmente nei settori più esposti. Un recente rapporto Svimez per l’Italia ipotizzava una perdita di circa 54.000 posti di lavoro nell’ipotesi, per ora sospesa, di dazi al 20% sulla generalità dei prodotti. Sicuramente un impatto sociale rilevante e preoccupante. 

Ma ovviamente non è questo aspetto socio-economico contingente, e che graverà sulle spalle di lavoratori e lavoratrici, il vero motivo di preoccupazione che anima politici, economisti mainstream e confindustriali. Il punto è, piuttosto, cosa comporterebbe l’uscita dal liberoscambismo per il capitale europeo che, proprio sul libero scambio e alcuni suoi corollari che proveremo a snocciolare, ha costruito la sua fortuna nell’ultimo trentennio e oltre.

A seconda delle contingenze storiche e internazionali, protezionismo e liberoscambismo vengono usati a correnti alterne dai paesi dominanti per rilanciare, mantenere o proteggere la supremazia del proprio sistema economico. Nelle fasi di consolidata supremazia commerciale industriale e tecnologica il libero scambio internazionale non fa altro che migliorare la posizione dei paesi più sviluppati che sbaragliano la concorrenza dei sistemi produttivi più deboli. Nelle fasi di perdita di competitività internazionale, invece, il protezionismo torna in auge per arginare il declino industriale e tecnologico, esattamente quanto accade oggi negli Stati Uniti. 

Finché il liberoscambismo conviene, insomma, lo si pratica con passione e lo si sostiene ideologicamente con la narrazione di reciproci e inequivocabili vantaggi generali e interclassisti della cosiddetta globalizzazione. Una favola intessuta di ipocrisia, da brandire all’occorrenza per difendere gli interessi delle classi dominanti. Niente di nuovo sotto il sole. Ci sono però tre elementi fondamentali su cui è utile soffermarsi.

Il primo elemento, di una disarmante semplicità, risiede nel fatto che la concorrenza internazionale, nel mondo reale, avviene tra imprese che operano in sistemi normativi diversi. Ogni Stato ha diversi livelli salariali, diverse imposte che colpiscono il reddito d’impresa, diverse normative a tutela del lavoro e dell’ambiente. La concorrenza tra imprese a livello globale ha, da decenni, come leve fondamentali, il costo del lavoro e il livello dell’imposizione tributaria. Ciò comporta, di per sé, una fortissima pressione sulle imprese che operano con maggiori “costi sociali” e spinge inesorabilmente queste ultime ad esercitare su lavoratori e governi una pressione al ribasso su salari, diritti del lavoro e imposte. La stessa pressione verso il basso, del resto, si verifica sistematicamente a causa della libera circolazione dei capitali. La sola minaccia di delocalizzazione produttiva da parte delle imprese mette infatti lavoratori, sindacati e governi del paese di turno in una condizione di ricatto permanente, costringendoli ad accettare condizioni capestro (salariali, normative e fiscali) per non vedere migrare il capitale e con esso migliaia di posti di lavoro e di gettito tributario.

Insomma, il libero scambio internazionale, da che capitalismo è capitalismo, si esercita in primo luogo attraverso una continua corsa al ribasso su salari, diritti, fiscalità delle fasce di reddito più ricche e normative di tutela sociale. Si tratta di una storia che nel contesto dell’Unione europea conosciamo bene.

Inoltre, sono altre due le tessere essenziali del puzzle del libero scambio e riguardano il ruolo delle esportazioni e delle importazioni come valvola di sfogo del conflitto di classe. 

Le importazioni, da un lato, consentono ai percettori di bassi redditi del mondo più ricco di acquistare merci prodotte a bassissimo costo tramite lo sfruttamento del lavoro nei paesi poveri. Ciò, in una certa misura, permette ai già vessati salari reali dei paesi più ricchi di accedere comunque a consumi che, a prezzi più alti, sarebbero loro negati.

Dall’altro lato, le esportazioni consentono di ridurre la portata di una delle più eclatanti contraddizioni del capitalismo: quella per cui comprimendo i salari al massimo i capitalisti segano lo stesso ramo su cui siedono, poiché una caduta dei salari (data una maggior propensione al consumo dei redditi medio-bassi rispetto a quelli alti) significa anche una caduta della domanda aggregata di beni e servizi e dunque della possibilità di vendere e fare profitti. La strategia di violenta compressione salariale e di austerità, quindi di tagli alla spesa pubblica, seguita dall’Unione Europea ha avuto bisogno di un generale regime liberoscambista affinché la debole domanda interna, vessata da bassi salari e domanda pubblica inesistente, venisse sostituita da una quanto più copiosa domanda estera. Un’economia a forte vocazione esportatrice può infatti permettersi la compressione salariale e similmente la compressione della spesa pubblica, risentendo assai meno del problema della carenza della domanda aggregata che verrà comunque garantita dagli acquisti esteri. 

Una riduzione delle esportazioni legata ai dazi metterebbe almeno in parte in crisi questo schema.

Inoltre, nella misura in cui i dazi introdotti da un lato della barricata richiamano, come del resto avvenuto, contro-dazi di risposta legati ad esigenze di bilancia commerciale e di opportunità politica, si porrebbe il problema del rincaro delle importazioni, che farebbe venire a galla un altro nodo cruciale delle politiche europee: la totale assenza di una politica industriale di sviluppo e sostegno di settori strategici e-o a forte rilevanza sociale. Per i paesi europei, in sostanza, a causa di una politica che ha da trent’anni fanaticamente cancellato il ruolo dell’intervento pubblico di regolazione e direzione dell’economia, sarebbe estremamente difficile praticare una linea di sostituzione delle importazioni tramite produzione interna. Basti pensare alla totale assenza di un’industria domestica dei software e dei sistemi informatici, al declino di decine di settori industriali o ancora alla totale dipendenza energetica. Tutte conseguenze della dismissione del ruolo dello Stato dall’economia: un altro frutto avvelenato, ma assai desiderato dai padroni, del liberismo e dell’austerità.

Una stagione in cui il liberoscambismo venga messo in discussione, dunque, sta chiaramente allarmando le élite europee, preoccupate di veder messa in difficoltà la linfa dei loro profitti, dopo aver per decenni spremuto salari e diritti dei lavoratori e determinato la contrazione della domanda domestica, tanto tramite la riduzione della componente pubblica (spesa pubblica) che di quella privata (consumi e investimenti).

Solo e soltanto per questa somma di motivi – non certo per i timori di un relativamente modesto calo del PIL e di un pur preoccupante aumento temporaneo della disoccupazione – si levano oggi le grida allarmate di politici, economisti e commentatori vari nei confronti del neo-protezionismo nord-americano. 

Alla classe lavoratrice, ora come sempre, spetta il compito di non illudersi che diversi tipi di regimi commerciali in quanto tali possano automaticamente garantirle futuri più rosei di quelli conosciuti fin qui. Un regime che garantisca la piena occupazione e una migliore e più equa distribuzione del reddito necessita di una messa in discussione generale e complessiva del funzionamento dell’economia interna e degli scambi con l’estero e della costruzione di un sistema economico nuovo, ma solo la riorganizzazione delle lotte sociali può avvicinarci a questo obiettivo. Non vi sono scorciatoie, tanto meno ne verranno da settori del capitale, in qualsiasi parte del mondo essi risiedano.

08/05/2025

da Coniare Rivolta

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