Con la decisione assunta nel vertice NATO del 25 giugno a L’Aia, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord si impegnano ad aumentare le spese militari e connesse alla difesa al 5% del PIL annuo entro il 2035.
Tale decisione risponde all’esigenza di aumentare del 30% la capacità militare dell’Alleanza e renderla “più letale”, nelle parole del Segretario Generale Mark Rutte. In applicazione dell’articolo 3 del Trattato fondativo della NATO, tutti gli Stati membri sono impegnati a mantenere ed accrescere la loro capacità bellica.
In attuazione di questo orientamento strategico, la NATO definisce periodicamente gli “Obiettivi di capacità”, che stabiliscono operativamente cosa un Paese debba essere in grado di fare in caso di guerra – andando ben oltre la definizione quantitativa delle risorse materiali necessarie. Proprio perché questa metrica è qualitativa e non si traduce in un impegno finanziario puntuale, è maturata in seno alla NATO la decisione di passaredalla mera indicazione di un aumento degli “Obiettivi di capacità” all’impegno finanziario sancito a L’Aia in termini di spesa.
Nella Dichiarazione de L’Aia, vengono chiariti i motivi di questa vera e propria corsa al riarmo: l’impegno al drastico incremento della spesa militare è giustificato dalle “profonde minacce alla sicurezza e sfide, in particolare la minaccia di lungo termine posta dalla Russia alla sicurezza Euro-Atlantica e la persistente minaccia del terrorismo.” A dispetto delle dichiarazioni di facciata dei leader occidentali che auspicano la rapida conclusione del conflitto ucraino, l’accordo sul riarmo mostra chiaramente che i Paesi dell’Alleanza sono proiettati su un orizzonte di guerra, con il fronte orientale aperto nel “lungo termine”.
Le ingenti risorse impegnate dai Paesi NATO sono la più limpida dimostrazione che la tragedia della guerra in Ucraina ha inaugurato una lunga stagione bellica. Che impone ulteriori sacrifici, anche alla luce dei limiti alla spesa pubblica sanciti dal nuovo Patto di Stabilità dal 2024, che costringono ogni anno a tagliare spesa sociale, welfare, sanità e istruzione con il feticcio del bilancio pubblico in pareggio e della presunta virtù dell’austerità.
Nel contesto istituzionale dei vincoli di bilancio europei, aumentare la spesa militare significa dunque necessariamente ridurre altre voci di spesa, dalle pensioni ai salari degli insegnanti, dalla manutenzione delle scuole agli stipendi dei medici, e così via. Ma andiamo nel dettaglio di questi sacrifici, per capire cosa ci chiede, la NATO, quando ci impone la via della guerra permanente e del riarmo.
L’incremento al 5% del PIL nella spesa militare si compone di un 3,5% riferito direttamente ad armi, munizioni e soldati, e di un 1,5% riferito ad infrastrutture e tecnologie strategiche, ovvero connesse – anche indirettamente – ad usi bellici, dai trasporti alla cybersicurezza.
Mentre questa seconda componente sembra essere facilmente sovrapponibile a investimenti infrastrutturali che si sarebbero comunque realizzati, a prescindere dalle strategie NATO (pensiamo al Ponte sullo Stretto, che potrebbe essere conteggiato nel percorso che porterà l’Italia al fatidico 1,5% in virtù della sua strategicità per gli spostamenti di truppe e veicoli militari pesanti…), ciò che inciderà profondamente sulla composizione del bilancio statale sarà l’ulteriore 3,5%, composto da spese inequivocabilmente connesse alla guerra.
L’Italia oggi spende l’1,57% del PIL in armamenti ed esercito, pari a 35 miliardi di euro, ed è dunque chiamata – in virtù dell’impegno sottoscritto dal Governo Meloni a L’Aia – a più che raddoppiare in dieci anni, in termini di percentuale del PIL, i suoi investimenti in produzioni direttamente utilizzabili in ambito militare.
Documenti governativi riservati indicano la necessità di incrementare la spesa di circa 4 miliardi di euro l’anno per centrare l’obiettivo, un importo ritenuto rassicurante per i conti pubblici: il Governo si è affrettato a indicare la coincidenza tra questa cifra ed il margine di aumento di spesa primaria consentito all’Italia il prossimo anno, all’interno dei vincoli stringenti del nuovo Patto di stabilità e crescita. In pratica, ci vorrebbero dire che l’aumento di spesa militare di 4 miliardi di euro per il 2026 non comporterà alcun sacrificio, perché – vedi tu la fortuna! – abbiamo la possibilità di aumentare la spesa pubblica proprio di quella cifra, e dunque non dobbiamo tagliare nulla per far spazio a carri armati e cannoni.
Purtroppo non c’è nulla di cui gioire, se pure le cose fossero così come descritte dalla propaganda governativa. Persino in un quadro di compatibilità con i vincoli di bilancio europei, per il 2026 il Governo potrebbe sfruttare quel margine di manovra per aumentare altre voci di spesa in termini nominali, magari assicurando in questa maniera quantomeno la stabilità dei servizi in termini reali. Se pure accettassimo (e non la accettiamo) la logica dell’austerità, il discorso governativo non tiene: quei 4 miliardi di spesa militare scalzerebbero un uguale ammontare di spesa sociale in scuola, sanità, servizi a cui si rinuncia a causa del riarmo.
Ma la situazione è addirittura peggiore di come la dipinge il Governo Meloni. E il diavolo si nasconde nei dettagli. Il calcolo che porta a ipotizzare un aumento di 4 miliardi annui si basa su una ipotesi che non ha alcun fondamento.
“A Pil costante, i nuovi obiettivi […] si tradurrebbero per l’Italia in «una crescita della spesa per la difesa a 79 miliardi di euro (+34 miliardi di euro per raggiungere la soglia del 3,5%)», si legge nel documento governativo. In effetti, partendo da 35 miliardi di euro, pari all’1,57% del PIL attuale di circa 2.200 miliardi, arriviamo ad un obiettivo NATO di 79 miliardi solamente tenendo fermo il PIL. In dieci anni! È del tutto evidente che il PIL è destinato a crescere nel corso di un decennio e dunque i numeretti del Governo si rivelano essere mera propaganda, utile a nascondere agli occhi dei propri cittadini il reale peso dei sacrifici che le strategie imperialistiche della NATO impongono in patria.
Applicando al PIL le stime che il Governo stesso ha elaborato nei suoi documenti programmatici di bilancio, è stato stimato che l’obiettivo NATO comporti per l’Italia un livello di spesa militare pari a oltre 100 miliardi di euro nel 2035. Questo significa che dovremo destinare alla spesa militare circa il doppio di quanto sta calcolando il Governo e che saremo certamente costretti a operare veri e propri tagli alla spesa sociale per finanziare le guerre della NATO, perché l’aumento di spesa per armamenti supera i limiti stringenti al percorso di crescita della spesa pubblica imposti dal nuovo Patto di stabilità e crescita.
Guerra e austerità sommano dunque alla tragedia bellica il dramma della povertà, della precarietà e del progressivo smantellamento dello stato sociale nei Paesi che, sotto il patto della NATO, ambiscono a dominare gli equilibri geopolitici internazionali.
La scelta del Governo Meloni deve essere valutata attentamente dal punto di vista politico. Persino all’interno dell’Alleanza Atlantica si sono infatti registrate voci fuori dal coro. La più significativa, quella del Premier spagnolo Sanchez, ha consentito alla Spagna di smarcarsi dall’obiettivo del 5%. Come detto, i vincoli della NATO si estrinsecano in “Obiettivi di capacità” e non in obiettivi di spesa. Sfruttando questo tecnicismo, Sanchez ha assicurato che la Spagna sarà in grado di fare quello che la NATO si aspetta in termini di capacità operativa, senza bisogno di aumentare la spesa militare nella misura richiesta a tutti gli alleati. Non si tratta certo di una posizione antimperialista che individua nell’uscita dalla NATO la soluzione del problema, ma quantomeno consentirà agli spagnoli di limitare fortemente i sacrifici economici e sociali di questa criminale corsa al riarmo.
D’altro canto, il Governo Meloni si muove in perfetta continuità con i Governi precedenti guidati prima dal PD e poi dal Movimento 5 Stelle. Questi ultimi, che oggi condannano con voce altisonante la scelta di Meloni di assecondare il diktat della NATO, hanno agito esattamente nella stessa maniera quando erano loro a guidare il Paese. Fu infatti il Governo Renzi, a guida PD, a concordare con la NATO l’impegno ad aumentare la spesa militare al 2% del PIL, mentre questa viaggiava al ribasso verso l’1% nel 2014. Il PD ha invertito la rotta, rispondendo alla prima chiamata al riarmo della NATO, per poi passare il testimone al Governo Conte, che nei vertici NATO del 2018-2019 ha confermato gli impegni italiani a perseguire l’obiettivo del 2%, accompagnando alle parole i fatti di una spesa militare in costante aumento.
Questo perché tutti i partiti politici che oggi occupano il Parlamento hanno, al di là delle schermaglie televisive, la medesima impostazione nei confronti degli equilibri geopolitici internazionali: mantenere l’Italia al servizio della NATO, costi quel costi sia alla periferia dell’impero – dove ogni giorno vengono massacrati degli innocenti – sia al centro dell’impero, dove dilagano povertà e insicurezza.
Dopo che per decenni ci hanno raccontato che non c’erano i soldi per aumentare i salari da fame degli insegnanti, per rafforzare la sanità pubblica e per tenere in piedi un sistema infrastrutturale che cade a pezzi, la classe dirigente europea e nazionale ha deciso di puntare tutte le sue fiches sulla guerra! Fermiamo questo scempio prima che sia tardi.
01/07/2025