Lo staff di Kamala Harris ha addebitato la sconfitta della vicepresidente al tardivo ritiro di Joe Biden dalla corsa e alle scelte politiche dell’ex presidente.
Commentatori ed editorialisti hanno puntato poi il dito contro quella fetta di elettorato, soprattutto nelle comunità afroamericane e latinos, che non se l’è sentita di votare una donna.
Indubbiamente Donald Trump ha vinto perché ha saputo mobilitare a suo favore una quota maggiore, rispetto al passato, di elettori provenienti dalla minoranze etniche, ottenendo un’ottima performance tra i votanti maschi.
Ma subito dopo l’ufficializzazione dei risultati elettorali Bernie Sanders, capofila di una corrente socialista interna ed esterna al Partito Democratico, ha individuato ragioni più profonde e strutturali. «Non dovrebbe suscitare grande sorpresa che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe operaia si accorga che la classe operaia lo abbia abbandonato» ha scritto in uno scarno comunicato il senatore rieletto nel Vermont. Sanders ha poi spiegato: «Prima è stata la classe operaia bianca, e ora anche i lavoratori latinoamericani e neri. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E ha ragione».
Commentando il voto, Sanders ha elencato alcuni degli elementi che hanno penalizzato Harris: diseguaglianze record, due terzi degli americani che vivono “di stipendio in stipendio”, standard di vita in calo, costi elevati dei farmaci, assenza di diritti di base che i cittadini di altri paesi danno per scontate come l’assicurazione sanitaria pubblica e il congedo familiare e sanitario retribuito.
«I grandi interessi economici e i consulenti ben pagati che controllano il Partito Democratico impareranno qualche vera lezione dalla sua disastrosa campagna?» si è chiesto infine l’ex sfidante di Joe Biden alle primarie del 2020. Il suo verdetto però è pessimista: «Hanno qualche idea su come affrontare la sempre più potente oligarchia che ha così tanto potere economico e politico? Probabilmente no».
Dai dati elettorali risulta evidente che Trump ha saputo mobilitare non solo l’elettorato reazionario e conservatore, ma anche molti elettori che, delusi dalle politiche di Joe Biden, hanno “provato” a votare a destra nella pur ingenua speranza di innescare un cambiamento. La svolta moderata impressa da Kamala Harris soprattutto nell’ultima fase della campagna elettorale, poi, ha convinto molti elettori ed elettrici progressisti ad astenersi o in qualche caso a votare per la candidata dei Verdi Jill Stein, scelta compiuta anche da una parte dei cittadini di origine araba o di religione musulmana scioccati dal sostegno bipartisan ad Israele di democratici e repubblicani.
Se Joe Biden, dopo la vittoria alle primarie – ottenuta grazie alla mobilitazione della grande stampa e dei potentati economici sponsor del Partito Democratico che assolutamente volevano evitare che prevalesse un Bernie Sanders considerato un estremista di sinistra – aveva inserito alcune delle proposte dello sfidante socialista nel suo programma di governo, durante il mandato le ha messe in un cassetto. E Kamala Harris ha chiarito che non le avrebbe neanche prese in considerazione avvicinando i suoi obiettivi a quelli dei repubblicani moderati.
In un intervento sulla rivista della sinistra americana Jacobin, Branko Marketic dà ragione al senatore del Vermont ed aggiunge altri elementi.
L’intera campagna elettorale della candidata democratica, scrive Marketic, ha ignorato sistematicamente le preoccupazioni dell’elettorato in campo economico, offrendo una manciata di risposte populiste – come la promessa di sovvenzionare con 25 mila dollari l’acquisto della prima casa e l’estensione del Medicare all’assistenza domiciliare per i pensionati – all’interno di un discorso interamente incentrato sulla difesa del diritto all’aborto e della democrazia, basato sulla denuncia di quanto Trump fosse pericoloso.
«Non sorprende affatto che milioni di elettori della classe operaia di diversa estrazione razziale abbiano respinto questa proposta o non si siano sentiti abbastanza ispirati a votare. In un periodo di costi degli alloggi alle stelle, l’unica politica abitativa della campagna di Harris era rivolta agli aspiranti proprietari di casa (un elettorato favorevole a Trump) e non offriva nulla agli affittuari, che sono in gran parte giovani, con redditi bassi e non bianchi. Harris non ha offerto alcuna politica sanitaria per chiunque abbia meno di sessantacinque anni, anche se rimane la principale fonte di ansia finanziaria per l’americano medio. Non ha fatto campagna per un salario minimo più alto, in un periodo in cui quasi un quarto dei lavoratori americani, ovvero 39 milioni, guadagna salari bassi (circa 35.000 dollari all’anno), tra cui circa un terzo dei lavoratori neri e latini» spiega il giornalista.
Sempre su Jacobin, in un articolo scritto poco prima del voto, Milan Loewer ha accusato Kamala Harris di aver abbandonato i messaggi anti-élite che avevano caratterizzato la prima parte della campagna elettorale per venire incontro alle pressioni della comunità imprenditoriale, scommettendo sull’inseguimento degli elettori moderati e laureati.
Il ricercatore del Center for Working-Class Politics di New York elenca ed esamina i risultati di un sondaggio condotto su un campione di 1000 elettori della Pennsylvania, uno degli “stati in bilico” conquistando i quali Trump si è assicurato la vittoria. Secondo la rilevazione, le dichiarazioni sull’economia considerate più “populiste” e di sinistra sono assai più condivise dall’elettorato rispetto a quelle sulla difesa astratta della democrazia utilizzate dalla candidata democratica.
«Mentre alcuni sono diffidenti, temendo che questo tipo di comunicazione possa dissuadere gli elettori «moderati» indecisi cruciali per le elezioni, abbiamo scoperto che è vero il contrario: l’unico altro gruppo che ha dimostrato un sostegno altrettanto significativo è stato infatti quello degli elettori indipendenti, che rispondono in modo più positivo alle forti affermazioni populiste e progressiste in campo economico rispetto a quelle sulla democrazia di circa l’11%» scrive Loewer.
Il ricercatori spiega come gli intervistati abbiano messo le élite in cima alla loro lista di bersagli, percepiti come influenze dannose nella vita del paese: «il nostro sondaggio mostra che gli indipendenti e gli intervistati della working class sono significativamente più diffidenti nei confronti delle élite in generale. Apparentemente quindi, conquistare il consenso di questi gruppi non richiede una posizione più «moderata» contro l’avidità delle imprese o la corruzione legalizzata. Il sondaggio suggerisce anche che le argomentazioni contro le élite culturali e l’establishment «woke» suonerebbero a vuoto se contrastate da una politica che chiama in causa i principali obiettivi dell’ira anti-élite: i lobbisti, i finanziatori e le corporation che manipolano il sistema».
Da quando è entrato sulla scena nazionale nel 2016, Trump si è descritto come un campione del cittadino medio, in lotta contro l’establishment antipatriottico. Se i democratici rimarranno legati alle istituzioni e agli ambienti imprenditoriali odiati dai cittadini, «Trump sarà in grado di restituire il sentimento anti-élite attraverso una lente partigiana e culturale».
Mentre Paolo Heidemann denuncia in un articolo che «nell’era di Donald Trump, i democratici sono diventati, incredibilmente, il partito preferito dal capitale americano» spiegando come e perché Kamala Harris ha ricevuto donazioni record da parte dei grandi e medi gruppi imprenditoriali statunitensi, David Sirota scrive:
«In un paese in declino, il rifiuto dei democratici nei confronti della classe operaia (e l’aperta ostilità del partito verso i politici populisti al suo interno) non può che creare le condizioni politiche migliori per un uomo forte conservatore che promette di rendere di nuovo grande l’America».
Secondo il giornalista e scrittore statunitense, «Trump e i suoi compari hanno inventato storie di burocrati autoritari, dei guerrieri e bande di migranti per tessere una narrazione secondo cui il governo delle élite è così (…) concentrato sulla politica dell’identità, che non gli importa della crisi di accessibilità che sta rovinando la vita quotidiana di tutti. I democratici hanno risposto tirando fuori le star di Hollywood, i Cheney e il miliardario Mark Cuban per raccontare la storia di un assalto alle norme dell’establishment che sta mettendo a repentaglio il brunch».
Sirota punta il dito contro la scelta di Kamala Harris di circondarsi di dirigenti repubblicani ostili a Trump, spaventando gli elettori progressisti, e riassume i passi che hanno convinto una parte importante della classe operaia statunitense ad abbandonare il partito, dall’approvazione del NAFTA (North American Free Trade Agreement) da parte dell’amministrazione Clinton negli anni ’90 al tradimento da parte di Barack Obama delle promesse di una rivoluzione legislativa favorevole agli strati medio-bassi della società. «Il tradimento ha provocato un’ondata di consensi della classe operaia per la prima candidatura presidenziale di Trump e una rinascita del populismo di destra» spiega il commentatore, secondo il quale non deve stupire che molti elettori abbiano snobbato il Partito Democratico che pure prometteva di salvare la democrazia americana dall’assalto di Trump: «Le tendenze autoritarie antidemocratiche esistono certamente in alcune parti dell’elettorato. E se l’esperienza economica vissuta dagli americani peggiora e il governo viene visto come complice, quelle tendenze probabilmente si intensificheranno».
Su un’altra rivista della sinistra radicale statunitense, “In These Times”, Jeff Schuhrke punta il dito contro l’elitarismo della dirigenza democratica, che dopo le elezioni ha accusato l’elettorato popolare di aver voltato le spalle a Biden nonostante tutto quello che il presidente ha fatto per avvantaggiarlo.
«La classe operaia statunitense è eterogenea, stratificata e ampiamente disorganizzata, il che rende facile per fascisti come Trump minare la solidarietà di classe mettendo certi lavoratori (soprattutto uomini e bianchi) contro altri. E di sicuro, molti dei più accaniti lealisti di Trump, indipendentemente dal loro status di classe, sono razzisti, misogini e transfobi» scrive il giornalista, secondo il quale però la causa principale della sconfitta di Kamala Harris è la scelta da parte dei democratici di voltare le spalle alla working class.
Schuhrke spiega come la decisione dell’amministrazione Biden di cancellare sussidi e programmi sociali varati nel 2020 per permettere a decine di milioni di persone di far fronte alle conseguenze economiche della pandemia abbiano fatto infuriare settori importanti del tradizionale elettorato democratico.
«Screditare la stragrande maggioranza dell’elettorato non è solo una risposta poco seria e controproducente all’attuale ascesa del fascismo, ma è anche ciò che ci ha portato fin qui» conclude Schuhrke.
Sempre su “In These Times”, Adam Johnson attacca la scelta della dirigenza democratica di evitare ogni forma di autocritica: «coloro che vengono incolpati non sono le élite del Partito Democratico, le istituzioni mediatiche liberali o il mondo della consulenza aziendale in cui operano, ma forze economiche esterne, persone transgender, immigrati e una schiera di gruppi minoritari impotenti o generalizzazioni così vaghi da risultare privi di senso».
Per il commentatore «Che i democratici stiano dissanguando gli elettori della classe operaia di tutte le fasce demografiche è indiscutibile, quindi bisogna trovare un colpevole. Ovviamente la soluzione non può essere una discussione sostenuta sul populismo economico di sinistra, poiché ciò metterebbe in discussione gli interessi di classe dei donatori e dei consulenti aziendali».
Kamala Harris e la dirigenza democratica hanno accolto con stizza le critiche provenienti dalla propria base e dai settori più progressisti. Ma i sondaggi e le rilevazioni dei flussi elettorali sono unanimi: i temi su cui ha puntato la candidata non rappresentano la priorità per la maggior parte degli elettori, per non parlare dell’ambiguità di molte proposte. La maggior parte delle persone sono più preoccupate delle difficoltà economiche, dell’inflazione, dei prezzi crescenti degli alloggi e delle cure mediche che delle sorti della democrazia o di diritti civili che, pur garantiti dalla legge, spesso non possono essere esercitati da chi ha redditi troppo bassi. In un contesto simile le paure nei confronti degli immigrati illegali, considerati – a torto – dei competitori per l’accesso alle risorse pubbliche e al lavoro – sono aumentate e hanno condotto una parte crescente dell’elettorato a scegliere Trump e le sue promesse di sigillare i confini e di operare una deportazione di massa dei clandestini.
Non ha pagato neanche la scelta di sostenere l’Ucraina con decine di miliardi di euro che a giudizio di molti elettori si sarebbero dovuti impiegare per migliorare le condizioni di vita di chi, negli Stati Uniti, non se la passa troppo bene.
15/11/2024
Pagine Esteri
di Marco Santopadre