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I giornali che sembrano liberi e invece ricevono soldi dalle pubblicità fossili

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Parlare di crisi climatica vuol dire indicarne i responsabili, ma come si fa quando le pubblicità fossili finanziano i principali giornali?

Le pubblicità di combustibili fossili sono grande un problema. Per la libertà di stampa e per la corretta informazione che i giornali possono fare sul clima. Perché parlare di crisi climatica vuol dire anche indicarne i responsabili che, la maggior parte delle volte, sono le aziende che producono e commerciano fossili. Con l’aggravarsi degli effetti del riscaldamento globale, il tema diventa sempre più attuale. Ma come si fa quando le compagnie fossili garantiscono gli introiti che fanno sopravvivere molte testate?

Un legittimo dubbio sulle testate che vivono (anche) sui proventi delle pubblicità fossili

In Italia è nata la rete Stampa libera per il clima, che raggruppa le testate che non hanno mai percepito introiti dalle compagnie petrolifere. O hanno detto loro addio. Non sono inclusi i cinque principali quotidiani nazionali, che ancora lasciano molto spazio alle pubblicità dell’industria petrolifera e non solo. All’estero alcune importanti testate hanno deciso di negare spazio all’advertising fossile, approfittando del rapporto di fiducia con il pubblico. Ma non sono poche le testate ritenute libere e attendibili, che però continuano a ospitare pubblicità di imprese inquinanti. E, ancor peggio, in alcuni casi lo fanno mascherandole da contenuti di native advertising.

Naturalmente ciò non significa necessariamente che le informazioni da loro pubblicate non siano veritiere. Ciò che sorge però è un dubbio legittimo: se quei giornali, radio o televisioni vivono anche grazie ad introiti di aziende del settore fossile, che in alcuni casi sono particolarmente “pesanti” nei loro bilanci, siamo sicuri che siano pronte ad attaccarle, se necessario, e a spingere affinché adottino politiche climatiche che la scienza ci dice essere imprescindibili per il futuro dei nostri figli?

La crisi climatica si aggrava: basta pubblicità di combustibili fossili sui giornali

A maggio 2024 è arrivato l’ennesimo allarme dell’agenzia europea Copernicus: si è trattato del maggio più caldo mai registrato nella storia. Era stato lo stesso ad aprile, marzo, febbraio. Il record mensile è stato infranto per dodici volte consecutive. Il 99,9% della comunità scientifica conferma che le maggiori responsabilità della crisi climatica sono da attribuire all’uomo. E, in particolare, proprio alla combustione delle fonti fossili. Non a caso, anche il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha lanciato un appello infuocato ai principali leader politici perché vietino nei propri Paesi la pubblicità delle aziende produttrici dei combustibili fossili.

Non si tratta di una richiesta isolata: lo stesso stanno facendo gruppi di attivisti (e sono solo) in tutto il mondo. L’Iniziativa dei cittadini europei (ICE) sulla necessità di intervenire in maniera primaria sul mondo dell’informazione ha già raccolto più di 350mila firme. L’idea di bandire le pubblicità delle industrie inquinanti, su cui spesso si basano importanti quote dei bilanci dei giornali, può spaventare. Spaventava anche quella di vietare gli spot di aziende produttrici di tabacco, ma è avvenuto e adesso è norma. È sperabile che lo stesso, nei prossimi anni, accadrà per le pubblicità delle industrie fossili.

All’estero esistono (poche) testate libere dalle pubblicità fossili

Diversi pionieri hanno preso l’iniziativa. Nel 2019 il quotidiano svedese Dagens ETC ha annunciato lo stop alle pubblicità di prodotti e servizi legati all’energia fossile: viaggi aerei, combustibili e automobili. A gennaio 2020 anche il Guardian ha fatto sapere che non avrebbe più accettato finanziamenti da industrie fossili, divenendo la testata simbolo dell’iniziativa. L’editore statunitense Vox Media ha bandito tali pubblicità per tutti i suoi prodotti editoriali dal 2021. Con le testate The Verge, New York Magazine, The Dodo, Now This e The Cut, raggiunge più di 95 milioni di persone: è dunque la più grande organizzazione mediatica ad aver preso questa strada.

Anche le emittenti televisive sono coinvolte. Dal 2023 la belga RTBF è la prima tv pubblica al mondo a vietare le pubblicità di aziende oil & gas. Insieme a quelle di farmaci su prescrizione, disinfettanti, antisettici, sonniferi e narcotici, bevande alcoliche e giocattoli che possono indurre comportamenti violenti, razzisti o xenofobi.

In alcuni casi l’approccio è graduale. Il quotidiano svedese Dagens Nyheter ha cominciato il proprio percorso nel marzo 2021, quando ha annunciato che gli spazi “premium” come la prima pagina non sarebbero più stati inquinati dalla pubblicità fossile. Lo scorso anno è stata la volta di Le Monde. Il giornale francese ha pubblicato una dichiarazione in cui prende una serie di impegni circa la condotta della redazione sul clima e fa riferimento anche alle pubblicità. L’obiettivo dichiarato è quello di abbassare gradualmente la percentuale di pubblicità di prodotti e attività basati sull’uso dei fossili.

Ma il vero problema sono le pubblicità mascherate da contenuti editoriali

Un capitolo a parte merita una serie di testate ritenute attendibili in tutto il mondo. Uno studio di DRILLED e DeSmog ha analizzato Bloomberg, The Economist, Financial Times, New York Times, Politico, Reuters e Washington Post. La ricerca monitora lo spazio lasciato ai cosiddetti advertorial, cioè quelle campagne che sono pagate dai brand ma assumono la forma di contenuti editoriali. Pur essendo contrassegnati come contenuti pubblicitari, dunque, a uno sguardo disattento possono non essere immediatamente riconosciuti come tali.

L’inventore del genere è stato Herbert Schmertz, allora vicepresidente degli affari pubblici della Mobil Oil (oggi ExxonMobil). Nel 1970 Schmertz cominciò la sua sperimentazione su una testata d’eccellenza: il New York Times. L’idea del manager, illustrata nel suo libro Goodbye to the Low Profile, era «influenzare gli influencer». Negli anni Novanta era arrivato sulle colonne di decine di testate tra cui Usa Today, The Economist e Time magazine. L’innovazione cambiò radicalmente le regole della pubblicità. Non si commerciavano più prodotti, ma valori e idee su come dovessero funzionare il mondo e le vite dei lettori.

L’idea è diventata dominante nel campo pubblicitario. E in particolare in quello dell’industria fossile. Tra il 2020 e il 2021 il Washington Post Creative Group ha prodotto una serie di editoriali per l’American Petroleum Institute. Contenuti in cui il gas veniva associato alle energie pulite o nei quali si sottolineava la scarsa affidabilità delle fonti energetiche rinnovabili. Nel solo 2022 la ExxonMobil ha sponsorizzato più di 300 edizioni della newsletter della testata. Nel 2022 il New York Times ha creato The Energy Trilemma, un podcast sponsorizzato da British Petroleum, su come le industrie ad alta emissione stanno affrontando la decarbonizzazione. Stessa cosa ha fatto Reuters Plus, con un podcast prodotto per Aramco.

Quanto guadagnano dal fossile le più importanti testate ritenute libere e indipendenti

Gli advertorial sono contenuti che hanno un costo più elevato delle normali pubblicità e pertanto rappresentano importanti quote di entrate. Guardando ai dati resi pubblici dalle sette testate oggetto dello studio, da interpretare come parziali, le cifre sono molto elevate. Bloomberg ha incassato 2,8 milioni di dollari grazie a inserzioni di Adnoc, BP, Chevron, ExxonMobil e Saudi Aramco. Sono invece 2,4 i milioni stimati per The Economist con sponsorizzazioni derivate da BP, Chevron, ExxonMobil, Petronas, Repsol e Shell. E Politico ha raggiunto i 3 milioni di dollari (eventi sponsorizzati esclusi) grazie alle casse dell’American Petroleum Institute, BP, Chevron, ConocoPhilips, Endbridge, Eni, Equinor, ExxonMobil, Saudi Aramco e Shell.

Si tratta però delle testate più timide. Il Financial Times, ad esempio, ha incassato 7,6 milioni di dollari per le pubblicità di BP, Chevron, Eni, Equinor, Essar Energy, ExxonMobil, Saudi Aramco, Shell, Total Energies. A queste cifre vanno aggiunte le sponsorizzazioni destinate ai diversi eventi pubblici organizzati dalla testata. Mentre sono 8,4 milioni gli introiti che Reuters ricava dalla pubblicità più o meno (sempre meno) esplicita di società come Adnoc, BP, Chevron, Conoco Phillips, Enbridge, Eni, Equinor, Petrobras, Repsol, Saudi Aramco, Shell e Total Energies.

Il New York Times, da cui tutto è iniziato, viaggia oltre i 20 milioni di dollari (20,3 senza contare i compensi per le attività creative del team della redazione). Il maggiore sponsor è Saudi Aramco che, nello stesso intervallo di tempo, ha destinato 13 milioni al NYT, 3 milioni a Reuters, 2,13 milioni all’Economist e 1,55 milioni a Bloomberg. E il principale concorrente della testata, il Washington Post, dichiara di ottenere dalla pubblicità per API, BP, Chevron, Enbridge, Eni, Equinor, ExxonMobil, Saudi Aramco, Shell e Total Energies circa 1,9 milioni di dollari, escludendo dal computo eventi e sponsorizzazioni.

Anche Italia i principali quotidiani dipendono dalle industrie fossili

Se all’estero molti grandi giornali hanno abbandonato le pubblicità fossili, lo stesso non si può dire in Italia. Lo studio condotto da Greenpeace e Osservatorio di Pavia sull’informazione dei cambiamenti climatici mostra una scarsa attenzione al tema. Le testate, secondo la ricerca, sono spesso condizionate da una forte dipendenza economica dalle aziende fossili.

L’analisi ha monitorato i cinque principali quotidiani nazionali (Corriere della Sera, la Repubblica, Il Sole 24 Ore, Avvenire, La Stampa) e i telegiornali serali delle principali emittenti (Rai, Mediaset e La7). Oltre che le 20 testate più seguite su Instagram. Sono 1.229 i contenuti pubblicitari totali registrati nel 2023 sui quotidiani. E gli effetti si vedono. Nei contenuti editoriali, infatti, queste testate parlano di crisi climatica, ma solo nel 15% dei casi indicano chiaramente le cause e in uno striminzito 5,5% nominano i combustibili fossili. In tutto l’anno, menzionano soltanto 14 volte le imprese dell’oil&gas.

Ma una stampa libera per il clima sarebbe possibile, anche da noi

Come accennato, un anno fa Greenpeace Italia ha lanciato la coalizione Stampa libera per il clima, cui Valori.it aderisce. All’appello della ong hanno risposto anche Altreconomia, EconomiaCircolare.com, Ethica Societas, rivista di scienze umane e sociali, Envi.info, Fada Collective, Fuori Binario, GUSTOH24, GreenMe.it, greenreport.it, Il Salvagente, La città invisibile, La Svolta, Nextville, QualEnergia, RADAR Magazine, TeleAmbiente, Terra Nuova e The Map Report.

Queste testate si impegnano a garantire una corretta informazione sulla crisi climatica. Non soltanto grazie alla professionalità di chi vi scrive, ma anche per il fatto di non essere ricattabili neanche sulla carta, dal momento che nessuna accetta denaro dalle compagnie fossili. Il prezzo da pagare, la mancanza di finanziamenti di valore ingente, è compensato dal beneficio della libertà di fare il proprio lavoro con rigore, parlando della crisi climatica «senza mai nascondere né le cause (in primis, i combustibili fossili) né i responsabili». E con la certezza, appunto, di non doversi trovare mai a dover scegliere tra la pubblicazione di un contenuto e il mantenimento di determinati introiti.

05/07/2024

da Valori

Rita Cantalino

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