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«I soldi devono restare al Nord». Quel filo verde che parte dal Po

«I soldi devono restare al Nord». Quel filo verde che parte dal Po

Calderoli, l'ultimo giapponese del federalismo di Bossi. Negli anni 90 l’ampolla e la secessione, poi i saggi di Lorenzago partoriscono la devolution. Nel 2009 la Lega ci riprova col federalismo fiscale. Fino all’autonomia di oggi. Mentre Salvini parlava di immigrati e si alleava con Le Pen, lui è rimasto concentrato sul Nord.

Dall’ampolla con l’acqua del Po raccolta sul Monviso (1996) all’autonomia differenziata del 2024 il passo -politicamente parlando- è assai più breve di quanto non facciano pensare i quasi trent’anni trascorsi. Allora alla regia c’era Calderoli, e così è anche oggi.

NEGLI ANNI 90, ORMAI SMESSI i panni del chirurgo maxillo- facciale, era un colonnello, l’unico dei bossiani a essere poi sopravvissuto a tutte le stagioni della Lega. Oggi è il grande vecchio che ancora muove le fila dentro una Lega che non è più il Carroccio di Alberto da Giussano, ma un partito che ha cercato di diventare nazionalista, salvo poi essere travolto dai veri nazionalisti di Giorgia Meloni. A Calderoli della «Lega Salvini premier» non è mai fregato nulla.

Lui, l’ultimo giapponese, porta avanti il programma di sempre, una revisione in chiave economica delle macro-regioni dell’ideologo Gianfranco Miglio. In sostanza: l’autonomia fiscale del Nord dopo che la secessione è stata superata e affogata dalla storia. «Teniamoci i danè»: il concetto si è dipanato attraverso mille forme in questi tre decenni, dal Parlamento di Mantova fino alla devolution, con i quattro saggi del centrodestra, riuniti nell’agosto del 2003 nella baita di Lorenzago di Cadore, poi bocciata dal referendum costituzionale del 2006.

E POI IL FEDERALISMO fiscale del 2009, con i famosi decreti delegati che tennero prigioniero l’ultimo governo Berlusconi fino al 2011. Erano gli anni fotografati in modo perfetto dalla telefonata intercettata tra Berlusconi e l’allora direttore di Rai Fiction Agostino Saccà, in cui il Cavaliere pregava il dirigente di muoversi per la fiction su Barbarossa, «Bossi mi fa una testa tanta, devi darmi una mano…». Il Cavaliere aveva il suo daffare nel tenere a bada l’Umberto, che scalpitava, a Pontida e poi a Venezia ogni anno doveva inventarsi una formula lessicale diversa per poter assicurare ai suoi che la libertà della Padania stava arrivando.

Anche il federalismo fiscale, che tenne occupate le camere per mesi e mesi, finì in un nulla di fatto: la crisi del 2011, l’arrivo del governo tecnico di Monti e dell’austerità (insieme al pareggio di bilancio in Costituzione) fecero carta straccia del federalismo. Dal 2011 la Lega è rimasta fuori dal governo nazionale fino al 2018: ma in quell’anno, in cui Salvini fu per la prima volta vicepremier, parlava solo di barconi da respingere, fino al suicidio del Papeete.

NEL FRATTEMPO CALDEROLI si è fatto più furbo: per l’autonomia niente più riforme costituzionali, meglio una legge ordinaria, dall’apparenza più soft. Zaia lo ha sempre pungolato, forte del referendum del 2017 che vide l’autonomia stravincere in Veneto e Lombardia. Alla fine il core business dei leghisti doc, al netto delle scampagnate di Salvini con Marine Le Pen, è rimasto lo stesso. Così come la difficile convivenza tra il federalismo e il presidenzialismo: gli equilibrismi tra Lega e An sulle due riforme-bandiera vanno in onda dal 1994, quando Berlusconi riuscì a fare un’alleanza asimmetrica: con Bossi al nord, con Fini al sud. «Mai coi fascisti», gridava l’Umberto. Poi fu il centrosinistra, nel 2001, a modificare il Titolo V, aprendo la strada al federalismo in Costituzione.

TORNATO AL GOVERNO NEL 2001, un Bossi assai più debole rispetto agli anni Novanta e più sottomesso a Berlusconi riuscì comunque a mettere in piedi, complici Tremonti e Aldo Brancher, il teatrino dei 4 saggi  di Lorenzago (Calderoli, Nania di An, Pastore di Fi e D’Onofrio dell’Udc). L’Hotel scelto, il Trieste, era semplicissimo, due stelle nel paesino delle vacanze di Tremonti, c’era Bossi al pianoforte che con l’amico ministro dell’Economia cantava Battisti nelle fresche serate d’agosto, i finanzieri del sud al seguito del ministro venivano sfottuti dai guardaspalle del Senatur: «Ma voi come avete fatto ad arrivare fin qui? Avete il passaporto?». E giù risate e grappini.

Calderoli si presentò in bermuda di jeans e camicia bianca, abbronzatissimo. Fu lui a tentare di incastrare le due riforme, litigando con Nania di An sulla clausola per l’interesse nazionale. Cossiga, in vacanza in Cadore, benedisse i saggi a suo modo: «Mi inchino di fronte a questo concentrato di cultura e conoscenza…».

LA MONTAGNA PARTORÌ il topolino: competenza esclusiva delle Regioni in materia di sanità, scuola e polizia locale. Nel frattempo Calderoli era diventato ministro delle riforme, al posto di Bossi colpito dall’ictus nel 2004. Da allora ha cambiato mille spartiti per suonare sempre la stessa musica, quella dell’autonomia del Nord. Si è fatto più prudente, non grida più «Bergamo nazione tutto il resto è meridione», non porta maiali sui terreni destinati alle moschee, non ha perso la pazienza della mediazione, anche con le opposizioni (cui poi rimprovera i frequenti cambi di orientamento sul tema federale). Ma il filo, in fondo lo ha riconosciuto lui stesso ieri in Senato, è sempre quello verde che parte dal Dio Po. «Il nostro vero obiettivo politico, dai tempi di mio nonno Guido…»

18/01/2024

da Il Manifesto

Andrea Carugati