30/10/2025
sa Il Manifesto
Giustizia e potere. Dal primo voto all’ultimo, nel giro di appena nove mesi, la destra al governo porta a conclusione un progetto di riforma costituzionale che abitualmente richiede tempi assai più lunghi e che lei stessa ha inseguito - nella sostanza - per oltre trent’anni
Dal primo voto all’ultimo, nel giro di appena nove mesi, la destra al governo porta a conclusione un progetto di riforma costituzionale che abitualmente richiede tempi assai più lunghi e che lei stessa ha inseguito – nella sostanza – per oltre trent’anni. Ci riesce adesso senza ostacoli e senza dover spostare una sola virgola nella sua proposta originaria, il che la dice lunga sul presunto potere di interdizione parlamentare (e spiega anche perché del famoso premierato che aumenterebbe ancora i poteri del governo non c’è più urgenza). Il ministro presunto vincitore, Nordio, con l’abituale grazia trova comunque il modo di infierire sulle «litanie petulanti» dell’opposizione. E probabilmente di peggio potremmo vedere oggi, avendo la maggioranza deciso di celebrare l’ultimo sì alla separazione delle carriere dei magistrati con un spettacolo di piazza. Magari piove.
È la destra stessa a chiamare gli elettori perché si pronuncino sulla “sua” riforma con il referendum. È un rovesciamento della procedura di garanzia prevista dalla Costituzione, non è inedito – lo fece Renzi nel 2016 – ma resta preoccupante. Se infatti cambiare la Carta prevede diverse cautele, quattro votazioni parlamentari e un eventuale referendum popolare, è perché eletti ed elettori possano avere tempo e modo di meditare bene sul testo. In questo caso invece la riforma porta la firma del governo, non è stata modificata in nulla ed è ancora il governo a volere che sia «confermata» dal popolo. A chiedere un voto popolare contro dovrebbe essere chi non è riuscito a fermarla in parlamento, sono invece gli stessi autori a invocare un voto a favore. È più un plebiscito che un referendum.
Ma soprattutto è un trucco, un tentativo di adulterare la logica della procedura di revisione costituzionale e il racconto di questa. Perché il referendum si sarebbe fatto in ogni caso, visto che la destra non ha raccolto sulla “sua” riforma il numero di voti parlamentari necessario per una promulgazione diretta. Non lo ha nemmeno cercato, escludendo a prescindere qualsiasi correzione e qualsiasi mediazione. Dunque è una riforma costituzionale della giustizia a immagine e somiglianza della destra questa che andrà approvata o respinta in primavera in un’alternativa secca.
Memore di precedenti fallimenti (di nuovo Renzi), Meloni vuole evitare di trasformare il referendum in un voto su se stessa. In una certa misura sarà comunque un primo tempo delle elezioni politiche, è chiaro però che la destra proverà a chiedere un voto «nel merito». Ma quale merito? La domanda intorno alla quale sarà costruita la campagna per il sì, è già chiaro, punterà a una semplificazione estrema: vi piace o non vi piace la giustizia italiana per come funziona adesso? Con il corollario di un altro riduzionismo anche questo assai furbo: siete favorevoli o contrari ai magistrati? È certo che se le domande fossero davvero queste, le chance per la vittoria del sì non sarebbero affatto basse e con buoni argomenti.
Ma il referendum chiede altro e lo sforzo di giudicare nel merito va fatto fino in fondo. La riforma infatti non è nemmeno una separazione pura e semplice delle carriere dei magistrati, le cui funzioni sono da tempo già nettamente distinte. Prevede almeno altre due novità sulle quali si sorvola un po’ troppo: l’indebolimento, mediante divisione e umiliazione (il sorteggio), dell’organo che consente ai magistrati di autogovernarsi e dunque di mantenere l’indipendenza dal potere politico. E l’introduzione di una corte disciplinare («Alta», ma anche questa estratta a sorte) con lo stesso obiettivo di mortificare l’autonomia delle toghe. Le quali, va detto, talvolta sembrano ricordarsi della loro indipendenza più in occasione della discussione delle riforme che nella fase di ordinaria interpretazione della legge. Per esempio quando sotto gli occhi di procure e tribunali finisce la sorte dei più deboli, di chi è marginale o migrante, di chi non può permettersi una difesa all’altezza, di chi si trova contrapposto agli apparati dello Stato. Questo però non può essere un argomento per desiderare meno autonomia, casomai il contrario.
Perché c’è poco da fare, se con la riforma si separassero definitivamente i pubblici ministeri dai giudici non si realizzerebbe solo una premessa teorica del «giusto» processo – il quale ha tanti e tali fattori di crisi nel nostro paese che resterebbe comunque un pio desiderio, privato innanzitutto delle risorse per potersi realizzare (le riforme costituzionali si fanno perché a costo zero). Ma si costruirebbe una nuova classe di pubblici accusatori con nessun altro scopo che cercare prove per portare a processo ed, eventualmente, ottenere condanne. Una classe che molto presto ci troveremo persino a sperare che venga messa sotto il controllo del governo, com’è negli altri paesi dove c’è la separazione, altrimenti sarebbe del tutto irresponsabile. Un veloce ripasso sugli ultimi video della presidente del Consiglio e di mezzo governo che gridano al golpe ogni volta che un magistrato prende una decisione che spiace alla maggioranza o non esegue prontamente quanto decretato da palazzo Chigi spiega perché in Italia dobbiamo al contrario ancora difenderci dal rischio di una giustizia addomesticata al potere.
Con questa separazione delle carriere approvata definitivamente, il pm diventerebbe il nemico professionale dei giudici e degli imputati, una figura del tutto fuori dall’orizzonte delle garanzie (quella che un tempo si chiamava la «cultura della giurisdizione»), più adatta a incarnare le virtù dell’accusatore non solo in tribunale ma anche fatalmente nel dibattito pubblico. Non c’è contraddizione nel fatto che la destra abbia un’attrazione fatale per questo genere di sceriffo con la toga e desideri renderlo la regola. Contraddizione sarebbe se un magistrato con queste attitudini dovesse diventare l’emblema della campagna del no. Eviteremo.

