La lezione. Una, due, dieci volte, a Gaza City, a Nuseirat, a Rafah...lo schema-Netanyahu: ogni volta che si riapre il tavolo negoziale, un feroce bombardamento lo cristalizza. L’ultradestra ha un peso, ma a decidere è sempre il premier che rifugge l’accordo
Lo schema si ripete da mesi, modello rintracciabile anche in offensive del passato, in Libano nel 2006, nella Cisgiordania della seconda Intifada: quando un cessate il fuoco sembra concretizzarsi, quando il dialogo procede seppur a tentoni, quando i mediatori internazionali a Parigi, al Cairo, a Doha limano dettagli e misurano al millimetro le concessioni all’una o all’altra parte, il governo israeliano sgancia la sua bomba.
Bombarda Gaza e bombarda il tavolo negoziale: due in uno, con una sola azione eclatante, mortifera e umiliante. Il triplo raid sulla scuola al-Tabin a Gaza City ne è l’ultimo esempio, poche ore dopo che lo stesso Netanyahu aveva annunciato l’invio del suo team negoziale al tavolo del 15 agosto, riaperto sull’onda di una rinnovata e disperata impellenza globale.
PARTIAMO dalla fine. Il 13 luglio nella «zona sicura» di Mawasi, lungo la costa sud, una serie di missili ha centrato le tende degli sfollati. Novanta uccisi, un bagno di sangue che Israele ha giustificato con un obiettivo: il capo militare di Hamas, Mohammed Deif. Colpirne uno. Dei 300 feriti molti moriranno nei giorni successivi.
Solo il giorno prima, il 12 luglio, il presidente Usa Joe Biden dava la tregua per «quasi fatta»: «Ci sono questioni complesse da affrontare, ma sia Israele che Hamas hanno concordato sull’impianto generale dell’intesa». Boom.
Il 4 luglio, Netanyahu aveva inviato la sua delegazione al Cairo: secondo indiscrezioni, Hamas sarebbe stato intenzionato a ritirare la sua richiesta principe, il cessate il fuoco permanente come condizione per il rilascio degli ostaggi israeliani. Indiscrezioni confermate il 6 giugno: il movimento islamico rinunciava alla fine definitiva della guerra. Poche ore dopo, i caccia israeliani bombardavano una scuola dell’Onu, la Al-Jaouni di Nuseirat, 16 uccisi.
Il mese prima, l’8 giugno, la strage più efferata: nell’operazione per liberare quattro ostaggi, soldati camuffati da sfollati penetrano nel campo rifugiati di Nuseirat, l’aviazione copre la fuga bombardando a tappeto. Gli uccisi saranno 276. Era trascorsa appena una settimana dalla mossa a sorpresa di Biden: un accordo in tre fasi, proposto secondo il presidente dallo stesso Israele. Netanyahu smentiva, ma gli Stati uniti tenevano il punto, sperando nello scacco matto con la copertura delle cancellerie globali che si erano accodate al piano fino a votarlo al Palazzo di Vetro.
Il mese di maggio si era aperto con Gaza in bilico: da una parte l’annunciata offensiva su Rafah, casa a 1,5 milioni di sfollati, dall’altra le speranze di un accordo. Il 4 maggio la delegazione di Hamas era al Cairo per discutere la proposta israeliana e aveva avanzato l’idea di un accordo in tre fasi di 40 giorni l’una (spiccavano la richiesta di liberazione di Marwan Barghouti, leader di Fatah, e il rilascio dei primi 33 ostaggi anche senza ritiro delle truppe israeliane). 48 ore dopo, il 6 maggio, Israele lanciava l’operazione di terra su Rafah, occupava il valico, lo dava alle fiamme e lo rendeva da allora inutilizzabile.
Il 31 marzo al Cairo riprendevano i negoziati, sullo sfondo di manifestazioni oceaniche in tutto il mondo e accampamenti nelle università che urlavano quanto la fine della carneficina fosse un obbligo morale. Il 2 aprile l’aviazione israeliana centrava il convoglio dell’ong statunitense World Central Kitchen: sette uccisi, sei stranieri e un palestinese. Le auto, ben riconoscibili, erano state prese di mira in due attacchi distinti, a distanza di un centinaio di metri.
QUALCHE settimana prima, con il Ramadan alle porte, la rinnovata pressione globale si era arenata su due attacchi consecutivi contro i palestinesi accalcati sui camion di aiuti in transito. Stragi degli affamati che seguivano alla più terribile: il 28 febbraio 114 uccisi mentre cercavano di accaparrarsi sacchi di farina dal fuoco aperto dalle truppe di terra. Prima le pallottole, poi la calca e il sangue che macchiava i sacchi di iuta.
Quella che sarà poi definita «la strage della farina» giungeva dopo un mese intenso, la tregua a un passo. L’apice era stato raggiunto a Parigi il 23 febbraio: si annunciavano «progressi» da giorni, non scalfiti dalla strage di 74 palestinesi a Rafah in un’operazione per liberare due ostaggi.
Il 22 gennaio era stata Tel Aviv a offrire un piano di tregua: due mesi di pausa in cambio di tutti e 130 gli ostaggi in mano ad Hamas. Tempo tre giorni e Israele ha bombardato la sua stessa proposta. O meglio gli ha sparato addosso: fuoco alla rotonda Kuwaiti, nel nord isolato e alla fame, durante la distribuzione di cibo. 25 ammazzati. Il 2 gennaio l’uccisione del numero 2 dell’ufficio politico di Hamas, Saleh Aruri, cristallizzava il dialogo, ripreso appena dieci giorni prima.
NON SONO pochi quelli che leggono nei costanti deragliamenti il modo per compiacere l’ultradestra, fondamentale a tenere in piedi la coalizione di governo guidata dal Likud. Il ministro delle finanze Smotrich, due giorni fa, ha minacciato di far saltare l’esecutivo se Netanyahu fosse giunto a patti con Hamas. Se la pressione dell’ultradestra sovranista ha un peso nelle decisioni del premier (peso che le migliaia di israeliani in piazza da mesi per chiedere uno scambio di ostaggi con Hamas non hanno), è vero anche che il decisore ultimo è lui, Benyamin Netanyahu.
E Netanyahu vuole la guerra per salvare se stesso e portare a termine la missione di una vita, il conflitto aperto con Teheran e la distruzione del suo progetto nucleare. Lo dice il suo ministero della difesa, lo dicono da settimane i suoi negoziatori, costretti a presentare ai mediatori (Egitto, Qatar e Stati uniti) richieste sempre nuove e improvvisate: a far deragliare il dialogo è sempre Mr. Sicurezza.
12/08/2024
da il Manifesto